martedì 12 novembre 2013

Roma FilmFest. Tutta la fragilità di un uomo, di un padre di fronte alla malattia del figlio ne "I corpi estranei" di Mirko Locatelli con Filippo Timi

Un altro film italiano in concorso è "Corpi estranei" di Mirko Locatelli, con Filippo Timi e Jaouher Brahim, dramma intimo sullo sfondo dell'attualità più scottante, fra malattia e immigrazione, razzismo e tolleranza, magari appena accennati, perché la vicenda è incentrata sui familiari del malato, e precisamente su un padre ritrovatosi in un'altra città, anzi in una metropoli, col suo bambino malato.

"Io e mia moglie produttrice e sceneggiatrice, Giuditta Tarantelli, siamo partiti da un'immagine di vent'anni fa - esordisce Mirko Locatelli -, un uomo solo con in braccio un bambino al reparto di oncologia pediatrica. Era solo un'immagine ma abbiamo provato a costruire una storia intorno a quest'uomo, sul tema della fragilità, più che del bambino dall'adulto. Naturalmente si tende sempre ad aiutare i malati, mentre in questo caso sono i genitori i più fragili, quelli che non vengono accompagnati in nessun senso". "Tutte le cure non solo fisiche - ribatte la moglie -, ma anche psicologiche si riversano sui bambini. Tutti i parenti stretti si riuniscono intorno al malato, mentre i genitori vengono trascurati, sono loro i malati invisibili, hanno il trauma di chi subisce una catastrofe, un terremoto. Perciò la nostra attenzione è più rivolta al papà che al bimbo, per rivelare il guscio in cui si chiude".
"Non è un film sul dolore ma sulla fragilità - afferma il regista -, e non volevamo scivolare nel patetico; sulla fragilità dell'uomo, perciò la malattia è il pretesto per raccontarla, perché ci vuol dignità e pudore. Anche perché della malattia non si riesce nemmeno a pronunciare la parola (cancro o tumore), ma diciamo spesso un brutto male. E Jaber è il personaggio con cui Antonio si deve misurare". "Quello che ho capito è il fatto di trovarsi davanti alla malattia - dichiara Timi -, e questo mi ha ricordato un episodio vissuto quando avevo 6 anni: i miei mi portano a Pisa perché zoppicavo, mi regalano la prima scatolina di lego, ero contentissimo; e ho scoperto a 30 anni che i miei genitori temevano che avesse un cancro alle ossa. Andando a fare questo - si trattava solo di fare un prelievo -, col camice bianco, guardo la mamma e le dico: 'se muoio sono già vestito da angelo', e ovviamente lei sviene. Io invece ero contento anche della flebo, 'mi mettono del liquido dentro!', dicevo sorridente. Quando ho letto la sceneggiatura ho scoperto che il punto di vista
è dall'altra parte. Bisogna parlare dell'etica perché è immpossibile recitare quel dolore, per qualcuno che ami e sta male, ancor di più se è un bambino. Dovevo nascondere una parte del dolore perché avevo a che fare col bambino, e con loro è impossibile fingere di avere una relazione, devi entrare in un rapporto più forte, vero - in mezzo ad una troupe -, è un lavoro da giganti. Quando ho guardato il film l'ho trovato interessante, davvero il più documentaristico che ho fatto, non mi sono mai preoccupato di recitare, e si è rivelato un buon approccio. Non mi piacciono quelli che recitano da grande attore, in fin dei conti tutti facciamo la cacca. Preoccupato perché un maggiorenne doveva trasformarsi in bambino (Hanks l'ha farro proprio 'Da grande'), nel rispetto massimo del piccolo, perciò si usano di solito dei gemelli. Li fai lavorare due ore, poi pausa, ci sono sempre mamma e papà. Io credo nella magia, è fiction, il bambino non stava male, credo nelle forze occulte. Da umbro grezzo crede che il bambino sia guarito grazie al contatto di quel olio che produce quel profumo, è costretto ad accettare quel processo grazie a quel gesto sul bambino, Antonio è costretto ad aprire gli occhi. Crea un'apertura in questo suo pregiudizio verso l'altro".
"Ho fatto un danno a non togliertelo quando piangeva - riprende l'autore -, volevo darti qualcosa in più, una specie di ricatto o accetti o niente. Infatti, sono due gemelli e non riuscivo a riconoscerli nemmeno io, e per ovvi motivi, nel film diventa uno solo. Dovrebbe uscire in sala tra febbraio e marzo. La scena del rito e della guarigione non vuole essere una tesi, mi interessava quel gesto, il tatto, l'usare la mano di Jaber sul bambino, che è un mezzo per entrare in contatto con Antonio. Infatti, lui non dice niente, è una sorta di soluzione al loro rapporto. La consolazione quando gli dice 'ah che bella camicia, ti sta bene', questo è il massimo che riesce a dire, ma conferma il fatto che l'ha accettato". "Sapevo dell'esistenza del cancro - dice il co-protagonista Jaouher Brahim, nel ruolo di Jaber -, ma non sapevo cosa provavano le famiglie e gli amici delle persone malate e ho capito così questo mondo". "Nemmeno noi sappiamo se è stato per l'unguento usato da Jaber - dice la Tarantelli sul fatto che il bambino supera la crisi -, o una sorta di miracolo perché lui è andato in chiesa, o per il cambio di antibiotico, quando non c'è una spiegazione razionale poi uno pensa così".
"Non me ne sono accorto di dover reggere la storia da solo - riprende Timi -, quando una storia ti piace raccontarla, senti che parla a te, è già un regalo. Spendere del tempo in pensieri di questo tipo per me è inutile, se ci credi, provi a 'vivere in quella storia e per quella storia'. Mi occupava totalmente, la mdp deve inseguirti sempre, ma non è questione di ruoli grandi o piccoli, l'impegno per me è sempre lo stesso. Stanislasky, diceva ad un attore, che si lamentava perché aveva solo una battuta, 'non esistono piccoli ruoli ma piccoli attori'. Il dialetto umbro? A Mirko interessava che entrambi i personaggi fossero degli 'emigrati'. Io umbro fuori dall'Umbria mi sento spaesato, dovevo sottolineare questo fatto del viaggio. Ad un certo punto il problema telefonate, vogliamo scrivere anche i dialoghi deella moglie o dell'amico? ma abbiamo capito che non serviva: in pratica tu telefoni a nessuno, sei solo, tutto qui, non pensavo che dall'altra parte ci fosse qualcuno, sapevo che parlavo a nessuno; ci può essere chiunque ma tu non lo senti, sei completamente solo. La cosa più diffile è parlare al telefono, mi interessava il fatto che fosse cosciente che non c'è nessuno, perché in quelle condizione sei davvero 'solo'. L'umbro è il mio ceppo, ho recitato in romanesco, in napoletano, in milanese, ma pochissimo in umbro. Ed è la prima volta che lo uso così, può essere interessante". "Doveva gestire un bambino - ribatte il regista - e non si preoccupava di recitare, lo stesso che facevamo noi alle prese con un bambino".
"So meglio l'italiano dell'arabo - confessa Jaouher -, ma ho una pronuncia milanese, e ho dovuto toglierla, tornare alla mia lingua e strutturare l'italiano arabizzato. Sono un ragazzo della provincia di Milano, non mi importava cosa facevo nella vita, dopo scuola giocavo e basta, ma nel centro giovanile c'era un laboratorio di teatro, e poi a Milano, durante un laboratorio estivo, organizzato dal teatro delle Albe di Ravenna, ho visto un signore e una signora che cercavano un ragazzo, e vedevano le nostre prove. Ho pensato sarà un disabile che si fa un giro nel parco, dopo lo spettacolo. Poi Mirko ha parlato con una guida delle mia scuola, e mi hanno chiamato al Centro Giovani di Melegnano. Mi hanno proposto un provino, poi con Mirko abbiamo lavorato un anno insieme, fino ad aprile 2013". "Lo spostare rende la cosa più fragile, un uomo adulto si ritrova a Milano dove addirittura quando sali sul bus ci trovi tutto il mondo rappresentato. Avevo visto un'intervista in tivù fatta in un momento in cui succedevano delle cose in un certo quartiere, dove loro dicevano che erano in guerra, soprattutto dei 50/60enne. Questo mi ha spaventato un po', saremmo noi a perdere ho aggiunto. Noi teniamo un diario, e ho annotato questa cosa, che la gente si sentisse in guerra con un nemico. Ho preso un po' di spunti, poi ho costruito Antonio pensando a Filippo, come giusto guerriero, apparentemente fortissimo ma che dimostra fragilità. Trovare i punti deboli del pesonaggi, trovare passaggi in cui incunearsi, visto che pensano di essere un po' in guerra". José de Arcangelo