venerdì 8 novembre 2013

Roma FilmFest. "L'ultima ruota del carro" sono gli italiani semplici e onesti. Fuori concorso la commedia italiana ispirata alla storia vera di un uomo comune

ROMA, 8 - Una commedia all'italiana ispirata alla storia vera di un uomo comune, 'normale', anzi non troppo, visto che si tratta di un uomo che è stato sempre semplice, onesto e sincero, che da noi raramente sono pregi. Però la struttura narrativa non può non ricordare il capolavoro di Ettore Scola "C'eravamo tanto amati". Prodotto da Domenico Procacci per la sua Fandango e da Warner Bros. Entertainment Italia, in associazione con Ogi Film "L'ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi, sceneggiato con Ugo Chiti, Filippo Bologna ed Ernesto Fioretti (il protagonista 'vero' del film), è il film di apertura (fuori concorso). La nuova opera di Veronesi si avvale dell'interpretazione di un sempre efficace Elio Germano, Alessandra Mastronardi, Ricky Memphis, Virginia Raffaele, Massimo Wertmuller, Maurizio Battista, e la partecipazione della rediviva Dalila Di Lazzaro e Alessandro Haber, nella parte di un artista geniale e controcorrente, forse.

"In questa loro amicizia - afferma Veronesi sul rapporto tra il traslocatore, che consegna le opere, e l'artista - pian piano Ernesto impara a conoscere i suoi dipinti, le sue tele e trova il modo di amarle, di toccarle, come se ci fosse un pezzetto di lui in ogni opera che consegnava". Il film, attraverso la travagliata esistenza del protagonista, percorre un arco di tempo di quarant'anni: dagli anni Settanta ad oggi, tra vizi e virtù degli italiani. "Conoscevo Ernesto Fioretti - continua -, un autista di produzione romano poco più che sessantenne di cui nel tempo sono diventato amico, ma non avrei mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato a raccontare in un film la sua vita più che movimentata. Tutto è nato quando un giorno mentre uscivamo da un autogrill reduci da un pranzo non esaltatnte, Ernesto mi ha detto 'abbiamo mangiato peggio di quando facevo il cuoco d'asilo...' E io: 'in che senso? Raccontami...". "Non volevo citare Fellini - confessa a proposito delle riprese sulla stessa spiaggia amata dal maestro -, ma tra quel litorale e quello di Torvajanica, c'è un abisso, addirittura un punto di vista poetico: le dune sono vere, le antiche costruzioni oggi sono diventate catapecchie, la natura selvaggia. L'ho scoperto perché lo zio di un mio amico, che fa il pescatore, ha una casa lì. Poi ho saputo che Fellini aveva girato sempre lì, anche Rossellini vi ha fatto parte delle sue riprese. Quel luogo ha una sua poesia (vicino a Passo Oscuro, sorta di parco naturale lasciato a se stesso, ndr.)". "Per me è una cosa completamente nuova - dichiara la cantante Elisa -, un sogno nel cassetto era fare una colonna sonora, come per un bambino riuscire a mangiare la torta intera. Attività parallela al mio percorso musicale, ora che l'ho fatta è stato come prendere una boccata d'aria, uscire dalla forma canzone - sempre strofa e ritornello - per mettersi al servizio di una storia, per dare note ai personaggi, le loro caratteristiche tradurle nel mondo musicale. Poi con una romanità che conosco e amo, più nella mia vita personale che in quella professionale, perché ho degli amici e sono spesso qui". "Devo ringraziare Giovanni - prosegue - che mi ha offerto la grande opportunità di realizzare il mio sogno, non ho idea cosa succederà ora, non credo farò altra cosa del genere. Non è normale per me fare colonne sonore, ma eccezionale e mi sento arricchita, torno al mio lavoro con tante cose belle in più".
"E' il primo film che facciamo insieme - dichiara il produttore Domenico Procacci -, sono stato amico del fratello di Giovanni, Sandro, ma lui mi sembrava troppo esuberante, ed era difficile che diventassimo amici. Però abbiamo lavorato molto bene, e siamo già al secondo film insieme. Mi ha interessato la chiave che ha trovato per raccontare questo paese, a volte cercando di capire le cose che sono successe, attraverso altre chiavi si trova la realtà. Mi sembrava interessante, ed insieme alla Warner Bros., con cui abbiamo già fatto il secondo e il terzo film, abbiamo lavorato bene con Simona Bensaché e Maccanico. L'uscita il 14 novembre con oltre 350 copie". "Certi quartieri non erano di élite negli anni '60 - afferma Veronesi sulla casa di Ernesto nel film e nella realtà - era la casa della madre della moglie e sono rimasti lì, hanno sempre la bandiera della pace da 30 anni, e hanno visto manifestazioni, comizi, caos. E' una persona mite e modesta. Certo se vuoi comprarla a Borgo Pio oggi devi essere milionario, ma lui furbescamente non l'ha venduta o svenduta, e adesso c'ha ancora casetta lì, come stanno sempre lì quelli che come lui non hanno venduto, a parte l'acciaieria che gli hanno messo sotto casa".
"La visione politica del film? - prosegue - E' una commedia e comprende tutti i generi, anche gli aspetti politici della cornice, visti sempre con ironia, comicità e divertimento. Per la morte di Moro io mi sono nascosto dietro gli occhi di Ernesto. Padre e figlio assistevano alla storia senza sapere che era la storia del Paese. La vittoria dell'Italia nell'82 ai mondiali di calcio, gli ha dato la forza di cambiare lavoro, c'era allora la forza, l'euforia, si esultava, ed venuto fuori il coraggio tipico di questo ceto sociale. Una persona che non ha la capacità di decidere da sola si attacca a qualcosa che accade fuori dalla finestra. E tutte queste finestre sulla società politica, sociale, riguardano lui che me le ha raccontate. Alcune coincidono con le mie, ma io sono molto più corrotto di lui, negli anni '80 era così, sicuramente, e credo di poterlo raccontare liberamente. La vita di una persona veramente normale a cui non è stata data mai una medaglia, e sono quelli come lui che pagano sempre le tasse. Di loro non si parla mai, che vivono svenandosi anche per gli altri, una medaglina gli va data perché è stato onesto. E' il mio regalo ad una persona come Ernesto che non mi assomiglia. La mia medaglia è un film sulla sua vita. Mi piace raccontare questo tipo di persone, e credo siano la maggior parte degli italiani". "Come di consueto ho messo me stesso - ribatte Ricky Memphis -, prendo sceneggiatura che mi danno, Giovanni mi ha parlato un po' dei personaggi, quel poco che mi ha chiarito le idee, quello che dentro avrei dovuto fare. Andare sul set come tutte le mattine alle 6.30. Diretto bene, semplice. Giacinto è positivo, è l'ottimismo di potercela fare, e un po' d'ingenuità che tutto possa andare bene".
"E' un reale amico del cuore - aggiunge il regista -, nelle sue storie abbiamo inventato un po' di più, è l'altra faccia della medaglia, mi piace l'idea di divertire parlando della realtà. Non abbandono il mio modo du fare cinema con ironia e divertiemnto, se poi ci sono momenti drammatici, questo fa parte commedia all'italiana. Nei provini gli attori mi hanno dato questa sensazione, di far ridere facilmente. Elio ha tempi comici che usa raramente (e l'avevo notato già in 'Che ne sarà di no') e fa ridere di tutto; Alessandra al provino ha fatto meglio di altre attrici, per quel tipo di commedia che amo fare io. E' un lavoro veramente d'équipe, forze Aurelio (De Laurentiis il suo produttore storico ndr.) non me l'avrebbe fatto fare. Lui mi segue con il grande successo, avrei potuto continuare con d'amore 4", ma questo tipo no. Sono contento di aver incontrato persone che ascoltato me, che sanno guardare in altro modo, partendo dalla storia. Eravamo solo conoscenti con Domenico, e sono andato da lui come regista. Mi ha detto 4 o 5 cose tutte azzeccate, lo stesso in Warner con Simona e Maccanico. Sono persone con le quali potevo parlare in un altro modo, per un regista è importante. Lavorare in un certo modo diventa routine, una macchinetta, anche Aurelio ha capito, anche se è una macchina da guerra, resta sempre una macchina. Ho voluto bussare ad altre porte, non solo sul particolare racconto di una vera persona che non avevo mai fatto. Fatto tanti incontri con persone che mi hanno tanto aiutato nella vita come Nuti, Aurelio stesso. Ora ho incontrato i ragazzi della Warner e Domenico e mi sono trovato molto bene".
"Ho pensato ad un inizio e una fine catartiche - conclude Veronesi -, la monnezza di Malagrotta, è una piccola metafora sullo stare attenti a buttare via le cose, perché spesso si buttano cose importanti della vita, e non riesci a trovare te stesso, è il giusto finale per una commedia di questo genere". José de Arcangelo