giovedì 15 novembre 2012

Senza gloria e senza infamia i film in concorso "E la chiamano estate" e "Un enfant de toi". Ma diverte Roman Coppola e ritrova la sua vena artistica Johnnie To

ROMA, 15 – Presentata ieri, non senza polemiche, anzi, l’opera terza di Paolo Franchi “E la chiamano estate” con Isabella Ferrari e Jean-Marc Barr. Un dramma esistenziale, dilatato (nonostante duri solo 89’) e persino snervante per il pubblico - inclusi gli addetti ai lavori -, su un’ossessione d’amore da una parte e di sesso dall’altra: ritratto di una coppia che si ama ma non trova l’equilibrio tra sentimento (spirituale) e desiderio (fisico), perché il loro amore non è ‘completo’.Però, purtroppo,il film sembra una sorta di ‘terapia’ per l’autore stesso e non per lo spettatore, almeno non per tutti.

Dino e Anna sono una coppia quarantenne, ma la loro non è una relazione convenzionale, anche perché non c’è stato mai un vero rapporto fisico. Lui si sottrae soddisfacendo la sua sensualità con prostitute e scambisti; lei non è in grado di trovare una soluzione, non sa e non vuole mettere fine a questo tormentato rapporto. Irrinunciabile storia d’amore o amore impossibile? La sofferenza di Dino fa sentire Anna profondamente amata, unica, ma tutto resta sospeso… anche il film. Dispiace perché Franchi aveva folgorato, non solo noi, con la sua opera prima “La spettatrice”, un po’ meno con “Nessuna qualità agli eroi”. Non basta osare e provocare, tra nudi integrali anche maschili e qualche flash ‘porno’, per coinvolgere lo spettatore, dato che la vicenda non è originale e sembra piuttosto personalissima e angosciante, tanto da spingere lo spettatore a pensare (e urlare come successe anche all’anteprima) “chi se ne frega”. Inoltre, anche i dialoghi non sono all’altezza della situazione, tanto da risultare in certi casi persino ridicoli. Meglio tacere, e stavolta vale anche per noi.
Nel cast anche Luca Argentero, in ruolo pseudo cameo, Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos, Jean-Pierre Lorit e Christian Burruano. Oggi invece è toccato al francese Jacques Doillon che con “Un enfant de toi”, ha rischiato anche lui di innervosire non solo il pubblico che non ama il cinema francese, intimistico e/o sentimentale. Una storia sviluppata – se volete stiracchiata – per due ore e venti minuti. Un racconto che rimanda al cinema dei cari amati ‘zii’ della Nouvelle Vague, in primis Eric Rohmer – il quale però aveva il dono della ‘concentrazione’, soprattutto negli ultimi vent’anni -, poi François Truffaut e Jacques Rivette che però aveva sposato per un periodo il ‘cinema verità’.
All’età di sette anni, Lina inizia a farsi delle domande sui genitori, amati ma divorziati. Si incontrano segretamente? Presto ne ha la prova e addirittura, all’improvviso, la madre le annuncia che vuole un altro figlio. Quasi che lei non bastasse più e, comunque, chi sarebbe il padre del futuro bambino? Suo padre o l’amico della madre? Come potete intuire una storia simile potrebbe essere raccontata persino in un cortometraggio, perché il cinema non è (sempre) vita vissuta, casomai – come diceva qualcuno – la morte al lavoro. Certo, non annoia chi ama seguire le storie racconte con garbo e interpretate con freschezza, incluso dalla piccola Lou Doillon, figlia dell’autore, con Samuel Bechetrit, Marilyne Fontaine, Malik Zidi e Olga Milshtein. Brevissimo e divertente invece “A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis Ford, anch’essa in concorso. Una commedia eccentrica e scoppiettante, un po’ cinefila come la precedente e sempre ambientata intorno al mondo del cinema. Charles Swan III ha tutto quello che si può desiderare: fama, denaro e un fascino diabolico che gli assicurano una vita apparentemente bella e felice. Ma quando la bella e imperscrutabile Ivana decide improvvisamente di lasciarlo, Charlie resta col cuore infrante e intraprende un demenziale percorso di autoanalisi nel tentativo di rassegnarsi all’idea di una vita senza Ivana. Anche qui un bel cast capeggiato da un inedito Charlie Sheen, Jason Schwartzman, Bill Murray, Katheryne Winnick, Patricia Arquette, Aubrey Plaza, Mary Elizabeth Winstead. Infine, il secondo film a sorpresa del concorso che, tra polemiche e altro, è passato quasi in secondo piano, nonostante il curriculum del regista Johnnie To (Kei-fung), da vent’anni autore di punta di Hong Kong e spesso invitato al Festival di Venezia. Il suo “Duzhan” (Drug War) forse non sarà tra i suoi migliori, anche se ritorna al genere che l’ha fatto diventare un regista di culto: il gangster movie. Inoltre, con il collega e co-sceneggiatore, affronta in modo inedito per la Cina continentale il tema del traffico della droga.
Il cinico trafficante Ming si schianta in macchina contro un negozio, mentre un incidente provoca l’esplosione del suo laboratorio dove si elabora la droga. Si salva, ma la moglie e il cognato sono morti dentro la fabbrica. Il funzionario di polizia Lei, intelligente e astuto, prova a rintracciare gli altri criminali offrendo a Ming l’opportunità di ridurre la pena, anzi di evitare la condanna a morte. Il boss accetta di aiutarlo tradendo i suoi fratelli e amici, ma non tutto andrà come previsto… Girando per la prima volta nella Cina Popolare – interamente a Tianjin -, Johnnie To ritrova la vena artistica che più gli si addice e, aggiungendo una buona dose di cinismo, evita persino la censura, rivelando i retroscena di un traffico che nemmeno il gigante d’oriente riesce a controllare. Chi ama il suo cinema, complesso e visionario, non verrà deluso; gli altri forse. Però nella sezione Prospettive Italia vengono presentati diversi documentari su vari argomenti, dal cinema ai problemi sociali, da personaggi pubblici come Berlusconi a registi come Giuliano Montaldo, Giuseppe Tornatore e Carlo Verdone.
Godibile tanto quanto i suoi film è, infatti, “Carlo!” di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni che è in realtà una bella intervista intervallata da spezzoni dei suoi film, dalle sue storiche partecipazioni a trasmissioni televisive e da testimonianze che ricostruiscono la sua carriera, tra passato e presente, ricordi e autoironia. Quindi, il cinema di Verdone visto da dentro, raccontato anche dagli attori, le attrici, i collaboratori, gli amici, la famiglia, le strade e le voci di Roma, e persino dalla casa in cui è cresciuto (‘raccontata’ anche in un libro). Da Ponte Sisto a Ostia, dal Centro Sperimentale a Cinecittà e oltre. Si ricorda e si ride, si riscopre e si rivede un attore/regista amato ormai da diverse generazioni perché i figli – come lui stesso - nel frattempo sono diventati genitori oppure nonni. Il regista di “Venti sigarette”, Aureliano Amadei torna al documentario con “Il leone di Orvieto”, scritto con Alessandro Falcone e Gian Piero Palombini, ma stavolta sui toni della commedia popolare. Partendo da un personaggio storico ricostruisce e restituisce i fatti che portarono ad una delle più grandi serie di crack finanziari degli anni Novanta, ovviamente intrecciata con la passione per il cinema che i nuovi colletti bianchi dimostravano. Infatti, Giancarlo Parretti – il protagonista -, è un colletto bianco però atipico. Nato a Orvieto in un’umile famiglia, inizia a lavorare molto presto. Da lavapiatti, dalla scarsa scolarizzazione ma dalle grande ambizioni, fatica non poco negli anni ’60 finché arriva l’occasione, e così dal ristorante passa alla serie di investimenti in Sicilia, a Siracusa e Noto. E c’è chi dice che Parretti vi fosse arrivato al servizio del senatore democristiano Graziano Verzotto, eminenza grigia di molti degli affari siciliani anni ‘50/’60. Lui dice di essere stato soltanto un socio, da cui rileva il Siracusa Calcio quando Verzotto, indagato nel crack Sindona e nell’omicidio di De Mauro, subisce un attentato mafioso e inizia una ventennale latitanza. Apre una rete di quotidiani locali e frequenta i vertici del Partito Socialista rivelandosi un imprenditori spregiudicato, ma per i suoi quotidiani viene arrestato per bancarotta documentale e per il Siracusa Calcio per frode fiscale. Non si impressiona più di tanto, visto che uscito di galera si ricostruisce una carriera a Milano, città di Bettino Craxi, negli anni ’80. Dopo una serie di scalate finanziarie sorprendenti quanto improbabili col nuovo socio Florio Fiorini, pioniere della finanza creativa, ex dirigente finanziario dell’Eni, e aiutato dai partiti socialisti europei, Parretti inizia a frequentare l’alta società internazionale e torna a togliersi qualche sfizio. Si lancia nel mondo del cinema, settore considerato strategico da europei e americani, compra la multinazionale Cannon Film, la spacchetta e vende le sale e i titoli della library. E’ Berlusconi a comprare le une e le altri, e in uno scambio poco chiaro di titoli che l’ex presidente Farina, in fuga, lasciava vacanti, Parretti risulta aver venduto a Berlusconi anche il Milan. Qualcosa di simile realizza anche in Francia, con la Pathé di Parigi, per finire con la scalata alla Metro Goldwin Mayer. Il suo sogno di ‘conquistare’ la celebre casa di produzione si avvera, ma travolge e affonda il francese Credit Lyonnais, però nel frattempo sforna una trentina di film tra cui “Thelma & Louise”, “Rocky V”, “La casa Russia” e “Urlo nella notte”, oltre il 17° 007 della serie. Passata nelle mani della banca, la MGM in fallimento viene ricomprata dallo stesso Kerk Kerkorian Fiorini, da parte sua, nel tentativo di prendere la MGM, causa la più grande bancarotta della storia della Svizzera e finirà in carcere per quattro anni. Parretti, invece, si batte per anni, riuscendo quasi ad evitare la galera. Alla fine trascorre soltanto 15 giorni in cella, in Italia, per un reato minore. Abita in Umbria, sempre a Orvieto, ma in un palazzo medievale di fronte al Duomo, e dalla terrazza del suo pied a terre di Roma, vent’anni dopo, minaccia di aprire un parco a tema vicino Roma, probabilmente con soldi degli Emirati Arabi. “S.B. Io lo conoscevo bene” di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella ricostruisce, invece, in meno di un’ora e mezza, gli ultimi trent’anni di Silvio Berlusconi, partendo dai precedenti. Da intrattenitore di navi da crociera a imprenditore di successo, e infine Primo Ministro d’Italia. In un certo senso ‘dalle stelle alle stalle’, perché la sua carriera (politica) si interrompe proprio quando sembrava essere a un passo dall’ufficio di Stato più alto e ricercato, il Quirinale. Quindi, precedenti, cause e conseguenze di vent’anni di storia italiana, con testimonianze, tra critiche e osanna, tra accuse violentissime e sostegni impensabili. Il tutto con materiale di repertorio e attraverso interviste, da Vittorio Dotti, avvocato personale ed amico, a Paolo Pillitteri, giornalista ed ex sindaco di Milano; da Giuliano Ferrara a Paolo Guzzanti, entrambi diventati - dopo anni di socialismo e/o comunismo - sostenitori di SB. In questo modo viene riletto e ridipinto il ritratto dell’uomo che ha diviso il (nostro?) Paese in due. “Pezzi” di Luca Ferrari è invece un ritratto, anzi una serie di ritratti della periferia romana, nato come reportage fotografico e diventato un documentario sulla/nella ‘bisca’, il bar gestito da Massimo detto ‘er Pantera’. Due stanze al Laurentino 38, tra alcolici e slot machine. Un ritrovo per molti, emarginati e non, ma soprattutto un crocevia di storie, dallo stesso Massimo a Bianca, Stefano, Rosi, Giuliana e gli altri. Tra risate e litigi, dolore e gioia, storie quotidiane di uomini e donne con un passato troppo duro da dimenticare, dato che il presente non è poi molto meglio. Vittime della droga, dell’alcol, del cancro e di una guerriglia quotidiana, tra di loro, con i figli e con gli altri. Un eterogeneo gruppo sociale senza speranza né futuro, forse. José de Arcangelo