venerdì 9 settembre 2011

Dal Texas a Hong Kong e all'Egitto irrompe la inquietante e cruda realtà alla 68a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

Penultimo giorno e ultimi due film in concorso alla 68a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. “Texas Killing Fields” di Ami Canaan Mann, figlia del celebre produttore-regista Michael, alla prima opera importante dopo il debutto nel 2000 con “Morning” e diverse regie televisive. Nel film, ispirato ad una storia vera, Sam Worthington (da “Avatar” a "Il debito"), Jessica Chastain (vista in "Wilde Salomé" di Pacino), Chloe Moretz e Jeffrey Dean Morgan. La seconda opera in gara è “Life without Principle” di Johnny To, ritorno al Lido a quattro anni da “Mad Detective” (2007). Due anche i lavori fuori concorso: il francese “La Clé des champs” di Claude Nuridsany e Marie Pérennou e l'egiziano “Tahrir 2011” di Tamer Ezzat, Ahmad Abdalla, Ayten Amin e Amr Salama. Texas City. L’ispettore della Omicidi Mike Sounder, un texano piantagrane, e il suo collega Brian Heigh, originario di New York, sono chiamati in aiuto dall’ex moglie di Mike, l’ispettore Pam Stall, per risolvere il caso di una ragazzina la cui macchina abbandonata è stata trovata nei Killing Fields. Sono una spianata costiera paludosa (che tutti dicono essere infestata dai fantasmi) dove sono stati ritrovati i corpi di quasi sessanta vittime, per lo più giovani donne. Nel corso delle indagini emergono due gruppi di indiziati, ma si aggiungono altre vittime. Quando ad essere rapita è Little Anne, una ragazzina di strada di cui Mike si sta prendendo cura, Brian e Pam sono costretti ad avventurarsi nel cuore dei Killing Fields nel tentativo di salvarla.
“Ai margini della piccola cittadina chiamata Texas City – dice la regista -, situata trenta minuti a sud di Houston, sono stati trovati i corpi di quasi sessanta vittime di omicidio. Alcuni di donne, altri di ragazze, prostitute, scolarette. Tutte vittime di assassini diversi. Tra la gran quantità di documentazione che corredava la straordinaria sceneggiatura di Don Ferrarone ho trovato una mappa allegata all’articolo di un quotidiano locale. Mostrava i volti delle vittime vicino a dove erano stati trovati i loro corpi. Capelli lisci stile anni ’70, frangette anni ’80, striati alla anni ’90. Decenni di ragazzine che si fanno il trucco e i capelli la mattina del loro ultimo giorno di vita, ignare che l’immagine che vedono allo specchio finirà anni dopo su una mappa delle vittime nelle mie mani. Molte sono foto di scuola. Gli occhi puntati dritti verso l’obiettivo, come si fa quando ci dicono di sorridere a scuola nel ‘giorno delle foto’. Su quella mappa, sembrano bei volti di fantasmi i cui occhi ti trapassano, alla ricerca di una voce. Ed è questa realtà, credo, che ha spinto me, il cast e la troupe a cercare di raccontare una storia difficile nel modo più elegante possibile. Come raccontare la loro storia? Come dare voce a coloro la cui voce è stata soffocata?”
L’opera dell’hongkonghese To narra le vicende parallele (che finiranno per incrociarsi) di una comune impiegata di banca che, promossa analista finanziaria, è costretta a vendere ai clienti titoli ad alto rischio; un gangster di mezza tacca spulcia gli indici dei futures nella speranza di guadagnare soldi facili per pagare la cauzione a un amico finito in prigione; un ligio ispettore di polizia, da sempre soddisfatto del suo tenore (medio) di vita, si ritrova disperatamente a corto di soldi quando la moglie versa la caparra per un appartamento di lusso che non può permettersi e il padre morente gli chiede di prendersi cura di una sorellastra mai conosciuta. Tre persone ‘comuni’ che non hanno null’altro in ‘comune’ tranne un gran bisogno di denaro per affrontare le rispettive ristrettezze e una crisi mondiale mai vista – finché un giorno spunta una borsa con 5 milioni di dollari rubati, precipitando i tre in una situazione intricata che li costringe a interrogarsi angosciosamente su ciò che è giusto o sbagliato e su tutte le sfumature intermedie nella scala della moralità.
Un argomento non nuovo (i soldi fanno girare il mondo) rivisitato da To in un riuscito mix di generi (dalla commedia al dramma d’autore), tralasciando l’azione e sotto un’apparente patina di cinema tradizionale che però nasconde un cuore tormentato dall’inquietante attualità.
“Viviamo in un mondo turbolento – afferma l’autore. Per sopravvivere, la gente non può fare altro che stare al gioco. Per quanto ci si sforzi di seguire le regole, prima o poi si finisce per perdere una parte di se stessi”.
“La clé des champs” è, invece, ambientato in uno stagno deserto. Due ragazzini soli si lasciano stregare da quel luogo selvaggio che a poco a poco li avvicina l’uno all’altro, dando loro la forza di affrontare la vita. Visto attraverso i loro occhi e la loro fantasia, lo stagno diventa un regno segreto, meraviglioso e terrificante al tempo stesso, infestato di creature nate dai sogni o dagli incubi. I bambini vivono un’iniziazione, breve ma intensa, dalla quale usciranno trasformati.
Secondo gli autori “E’ una vera e propria fiaba. Lo stagno – questo luogo che i protagonisti hanno scelto come paradiso incontaminato, rifugio remoto dal mondo degli adulti – diventa uno specchio magico tramite il quale scoprono esseri misteriosi che li restituiranno alle loro vite di partenza. Attraverso gli occhi dei bambini, lo stagno si trasforma in un oceano abitato da creature straordinarie… creature che insegneranno loro la leggenda della vita, una vita nuova che dovranno capire e addomesticare. Grazie all’amore per quel regno, i due protagonisti usciranno dalla solitudine, scoprendo a poco a poco l’amicizia”.
L’egiziano “La fine”, narra quella mattina del 25 gennaio 2011 in cui gli egiziani non potevano immaginare che quel giorno di festa nazionale si sarebbe tramutato in una rivoluzione per l’abbattimento del regime. Grazie ai social media, la nuova generazione araba ed egiziana aveva potuto assistere alle atrocità commesse dal regime del presidente Hosny Mubarak negli ultimi trent’anni. Per 18 giorni il mondo ha visto il popolo egiziano scendere in strada per porre fine all’ingiustizia, alla povertà e alla corruzione. A questa nuova generazione appartengono anche tre registi che hanno voluto raccontare la storia da un punto di vista cinematografico unico. Tamer Ezzat, con la collaborazione di Ahmed Abdalla, mette in primo piano il coraggio di diversi personaggi, le cui azioni hanno spinto alla rivoluzione la gente attorno a loro. Ayten Amin racconta il suo viaggio personale tra la polizia e le forze dell’ordine, che mai aveva affrontato prima della rivoluzione. Emergono così corruzione e ingiustizia del corpo di polizia soggetto al regime. Amr Salama scava proprio nella mente e nell’anima dell’ex presidente Mubarak, intervistando importanti personalità e politici che sono stati alleati o oppositori del regime. Questa è la storia della rivoluzione vista attraverso i loro occhi in tre capitoli diversi, dal titolo: Il Buono, Il Cattivo e Il Politico.
Il Cairo, 21 marzo 2011, Ezzat dice: “La trasformazione degli egiziani mi ha colpito moltissimo. Soltanto qualche giorno prima del 25 gennaio erano un popolo apatico e sottomesso, ma nel giro di poche ore si sono uniti per il bene comune, diventando dei veri guerrieri“.
E Amin ribatte: “Nel cuore di Piazza Tahrir sorgerà un monumento in ricordo delle vittime e dei martiri della rivoluzione egiziana. Mi piacerebbe sapere se recherà l’iscrizione ’Questi martiri sono stati uccisi dai proiettili dei poliziotti egiziani’“.
Salama conclude: “E’ stato un viaggio attraverso la mente di un dittatore, che ha sollevato domande e risposte su cosa lo abbia reso tale e come possiamo salvaguardarci dal crearne un altro“.
Ma l’evento della giornata è stato l'assegnazione del Leone d'oro alla carriera a Marco Bellocchio. Il premio è stato consegnato durante un evento speciale preceduto dalla proiezione del documentario-omaggio “Marco Bellocchio, Venezia 2011” di Pietro Marcello e seguito dalla nuovissima versione di “Nel nome del padre”, più breve (di un quarto d’ora), quindi più ‘asciutta’ ma se vogliamo ancora più coinvolgente e sempre potente e attuale, anche dal punto di vista cinematografico.
“Quando lo concepii c’era già la crisi del '68 – afferma l’autore - e questo spostare il tempo nel passato è stata un’operazione da me voluta. L'ho scelto pure per questo, perché sentivo che potesse essere ancora rielaborato, c’erano elementi ideologicamente soffocanti (e quindi ormai datati ndr.) e ho sempre creduto che le immagini potessero essere più libere, accompagnate da un ritmo più coinvolgente. Abbiamo fatto molti tagli, piccoli e non, anche se il senso del film, la sua provocazione, la disperata ribellione, è rimasto inalterato. Solo che ora è più bello”.
“Ringrazio il Festival, la Biennale, il suo Presidente, il Direttore e amico Marco Mueller – ha proseguito durante la premiazione -, e naturalmente Bernardo Bertolucci che ha accettato di consegnarmi questo Leone alla Carriera. La mia carriera sono i film che ho fatto finora. Film diversi a seconda delle esperienze umane molto diverse che ho vissuto in 50 anni, appunto, di carriera”.
Ricorrente la domanda da parte della stampa: “Ma la tua rabbia (quella dell’opera prima capolavoro ‘I pugni in tasca’, dei mitici Sessanta…) dov’è finita?”
“L’intenzione è – sempre – di fissarmi, pietrificarmi in quel passato – afferma il maestro. Ho risposto una volta di sentirmi un ribelle (o un rivoluzionario?) moderato, definizione che piacque e conquistò il titolo. Il significato di quel rivoluzionario – o ribelle – moderato, al di là della contraddizione palese che appunto un rivoluzionario non può essere moderato, è forse di un ribelle che ha rinunciato alla violenza…
Da allora, i mitici anni ’60, le mie immagini sono cambiate, perché la mia vita è cambiata. Non sono più l’assassino o il suicida, protagonisti delle mie storie. Né il pazzo il portatore della verità. Sono indubbiamente cambiato (la possibilità di cambiare, di trasformarsi, per certa cultura è inconcepibile e quindi affermarlo è già una provocazione): le immagini stanno lì a dimostrarlo”.
“Ciò che non è cambiato – aggiunge - è una naturale inclinazione a stare dalla parte di chi è oppresso, di chi è vittima di qualsiasi violenza, a qualunque classe appartenga, la violenza dei padri – come delle madri – e la loro complicità, ma non di chi accetta passivamente la propria sconfitta e predica la rassegnazione (‘così va il mondo e andrà sempre così…’)”.
“Credo che la libertà sia la cosa più preziosa per un artista – conferma -, non parlo delle libertà civili che sono garantite in questo paese, dalle leggi che vanno rispettate, ma quella libertà di immaginazione che mi obbliga a rifiutare il ‘devo’ (o il ‘non posso’), lo scrupolo morale che è mortale per l’artista, paralizza la fantasia, il devo o non devo per non tradire l’idea (‘i compagni’, si diceva una volta), per non essere giudicato come un reazionario, un venduto, o un pazzo… è necessaria a un artista questa libertà, per esempio, di immaginare Aldo Moro che passeggia libero all’alba in una via di Roma… (in ‘Buongiorno, Notte’ ndr.) massimo falso storico che la sinistra più che la destra mi ha puntualmente rimproverato…”
“Si può lavorare oggi con poco – ha concluso -, ed è una gran fortuna, ma senza quella libertà i giovani imiteranno sempre le grandi commedie, o i drammi – o le farse – dei padri. Perciò questo premio alla carriera non è una celebrazione, o un risarcimento per non so che cosa, né una riconciliazione istituzionale, ma semplicemente il riconoscimento di una coerenza che in tutti questi anni ho cercato sempre di difendere, di una libertà che va sempre riconquistata”.
Anche nella giornata di oggi al Lido è stato assegnato il Premio Pietro Bianchi 2011 alla sempre affascinante Virna Lisi, biondissima e bellissima diva anche a Hollywood negli anni Sessanta. Un’attrice e una donna che ancora oggi non ha rinunciato al suo lavoro né all’età.
José de Arcangelo