sabato 4 settembre 2010

Al Lido è il giorno delle "Passioni" da Turturro a Mazzacurati, da Scorsese a Ozon, da Fedorchenko alla Colagrande

Quarto giorno alla 67a. Edizione del Festival di Venezia contrassegnata dai film in concorso, dal poetico dramma russo di Fedorchenko a due riuscite commedie, una brillantissima firmata dal francese Ozon e l’altra amara dall’italiano Mazzacurati. Gli altri titoli in programma oggi: “A Woman” di Giada Colagrande, con il compagno Willem Dafoe, in Controcampo Italiano. “A Letter to Elia” di Martin Scorsese e Kent Jones, “The Child’s Eye” di Oxide e Danny Pang, e “Passione” di John Turturro, fuori concorso.
Ecco i tre film in gara per il Leone d'oro: “Ovsyanki” (Silent Souls) del russo Aleksei Fedorchenko, “Potiche” del prolifico François Ozon, e “La passione” di Carlo Mazzacurati.
Le anime silenziose del toccante film russo sono quelle di Miron e Aist, due uomini in un viaggio rituale che diventerà una sorta di ricerca di se stessi. Alla morte dell’adorata moglie Tanya, Miron chiede al suo migliore amico, Aist, di aiutarlo a dirle addio secondo i rituali della cultura Merya, un’antica tribù ugro-finnica del lago Nero, pittoresca regione della Russia centro-occidentale. Nonostante l’etnia sia stata assorbita da quella russa nel XVII secolo, i suoi miti e tradizioni si sono perpetuati nella vita moderna. I due uomini partono per un viaggio che li porterà per migliaia di chilometri attraverso terre sconfinate. Assieme a loro, due piccoli uccelli in gabbia. Lungo la strada, Miron condivide i ricordi più intimi della sua vita coniugale, ma quando raggiungono le rive del lago sacro dove si separeranno definitivamente dal corpo, Miron scopre di non essere stato il solo ad amare Tanya...
Irresistibile Ozon alle prese con una commedia insolita ed esilarante dove a regnare è la diva Catherine Deneuve – quasi 70 anni ma non li dimostra -, assecondata da Gérard Depardieu e Fabrice Luchini. Ma è una sorta di scatenata rivincita delle donne ambientata, non a caso, negli anni Settanta, fra emancipazione e contestazione.
1977, Sainte-Gudule, Francia settentrionale. Robert Pujol, ricco industriale, dirige con pugno di ferro la sua fabbrica di ombrelli, mostrandosi dispotico anche con i figli e con Suzanne, la “moglie-trofeo”, sottomessa e costretta alla vita domestica. Quando gli operai entrano in sciopero e sequestrano Robert, Suzanne lo sostituisce alla guida della fabbrica. A sorpresa, la donna rivela una gran competenza e capacità d’azione. Ma Robert torna dal suo ‘viaggio di riposo’ in forma smagliante e tutto si complica...
Già allenato nel genere grazieal delizioso “8 donne e un mistero”, Ozon offre alla Deneuve l’occasione di tornare protagonista, dopo tanti ‘piccoli’ ruoli e partecipazioni speciali degli ultimi anni. E vince la sua scommessa perché l’attrice scopre una verve comica mai vista prima e i suoi, pur grandi partner, diventano spalle di lusso.
Mazzacurati riflette con umorismo amaro sulla propria professione e sulla realtà italiana, trovando spunto nella (solita?) ‘commedia all’italiana’, anzi in quelle di Mario Monicelli, tanto che i suoi attori mancati e il suo regista frustrato sembrano membri di quelle ‘bande sgangherate di cialtroni’ che hanno reso indimenticabili film come “I soliti ignoti” e “L’armata Brancaleone”. Così come nella scena della (finta) crocifissione è impossibile non pensare al Pasolini di “La ricotta” (episodio di “RoGoPaG”) con il grande Orson Welles.
Passati i cinquant’anni, essere un regista emergente diventa un problema. Ne sa qualcosa Gianni Dubois (Silvio Orlando), che non fa un film da anni, e adesso che avrebbe la possibilità di dirigere una giovane stella della tivù (Cristiana Capotondi) non riesce a farsi venire in mente una storia. In più, una perdita d’acqua nel suo appartamento in Toscana ha rovinato un affresco del Cinquecento nella chiesetta adiacente. Per evitare una denuncia, Gianni deve accettare la bizzarra proposta del sindaco del paese: dirigere la sacra rappresentazione del Venerdì Santo in cambio dell’impunità. Così si ritrova a passare una settimana nella Toscana più profonda nel tentativo di mettere in piedi una specie di Via Crucis, con gli apostoli, Ponzio Pilato, la crocifissione e un pessimo attore-presentatore locale (Corrado Guzzanti) nella parte di Cristo. Ma un ex galeotto (Giuseppe Battiston) incontrato per caso e una barista polacca (Kasia Smutniak)…
La Colagrande, già autrice di “Aprimi il cuore”, ritorna sui tormenti amorosi del cuore e della psiche, in un dramma dallo spunto hitchcockiano (dal “Sospetto” a “Rebecca”). Julie, una donna giovane e ingenua, conosce un uomo misterioso, che si rivela essere Max Oliver, famoso scrittore americano. Disperato per la recente scomparsa della moglie – la bella danzatrice Lucia Giordano, che è il soggetto del suo ultimo romanzo, “A Woman” – Max viene salvato dalla sua depressione da Julie. Se ne innamora e la invita immediatamente ad andare a vivere con lui nella sua casa in Italia. Natalie, la migliore amica di Julie, la mette in guardia; ma la donna segue comunque l’uomo, covando però in seno la paura di venire messa in ombra dal ricordo della moglie morta. L’insicurezza di Julie si trasforma ben presto in paranoia: più cose scopre su Lucia e più ne diventa ossessionata, quasi fino alla pazzia. Persino il tentativo di Natalie di aiutarla spinge Julie sempre più verso la gelosia e il sospetto. Solo Max può salvarla dai suoi demoni rivelando i propri.
Vedere “Fronte del porto” e “La valle dell’Eden” da giovane è stata per Martin Scorsese, cresciuto a Little Italy, un’esperienza che gli ha cambiato la vita. Scorsese, che vediamo o ascoltiamo durante tutto il film, ripercorre la vita di Elia Kazan, nonché la propria, nel segno di quella crescente presa di coscienza che ci dovesse essere un artista dietro la cinepresa, qualcuno “che mi conosceva, forse meglio di quanto conoscessi me stesso”. E’ un film-documento sull’importanza di essere esposti ai film giusti al momento giusto, quando si è adolescenti e completamente aperti e pronti a entrare in contatto, a essere spronati da ciò che si vede lassù, sul grande schermo, per poi, forse, iniziare un percorso che possa portare alla creazione di film propri. Costituito da spezzoni, fotografie, letture dall’autobiografia del maestro e dal suo discorso sulla regia (letto dall’attore Elias Koteas), da un’intervista su videocassetta a un Kazan già anziano e dal commento di Scorsese davanti alla cinepresa o fuori campo, “A Letter to Elia” guarda da vicino alla vita dell’arte e alla sua creazione: il lavoro, le distrazioni, le ispirazioni, le complicazioni, i raccordi tra l’arte e l’esperienza vissuta. Scritto e diretto da Scorsese e Kent Jones, è un documentario profondamente personale, un ritratto e autoritratto sincero, ed un riconoscimento altrettanto sincero della vicinanza e della distanza tra gli artisti e le loro opere.
I fratelli cinesi Pang (di Hong Kong) non abbandonano l’horror (in Italia visti “The Eye” 1 e 2) ma esperimentano per la prima volta il 3D, completamento realizzato in patria, offrendoci il primo film tridimensionale realizzato interamente in oriente. Un esperimento riuscito quasi completamente, anche perché i registi hanno affrontato il nuovo mezzo con passione e serietà, studiandone causa ed effetti.
Bloccati in Tailandia dai tumulti politici e dalla chiusura dell’aeroporto, Rainie e i suoi amici non possono tornare a casa e si stabiliscono con riluttanza in un vecchio albergo scalcinato. Assieme a lei ci sono Lok, il ragazzo che Rainie sta quasi per lasciare, Ling e suo fratello Rex e Ciwi assieme al suo adorato Hei, il suo compagno. Appena si presenta in albergo, il gruppo si imbatte in tre bizzarri bambini e in un cagnolino e da quel momento cominciano a susseguirsi strani avvenimenti. Il giorno dopo Lok, Rex e Hei spariscono nello stesso momento. Le tre ragazze perlustrano tutto l’albergo nella speranza di ritrovare i tre giovani scomparsi, ma ogni tentativo è vano…
Visto il budget elevato della pellicola, i fratelli Pang confessano: “Abbiamo optato per un cast giovanissimo, combinato con una serie di effetti speciali e con le più moderne tecnologie 3D, allo scopo di proporre al pubblico la migliore esperienza cinematografica e più all’avanguardia. ‘Tungngaan’ (titolo originale) sarà probabilmente il primo film dell’orrore asiatico in 3D, e ci auguriamo che con quest’opera il genere horror asiatico tocchi nuove vette”. In bocca al lupo!
La sua “Passione” per Napoli e per la sua canzone hanno spinto Turturro a condurre un viaggio al termine di un juke-box, il più grande del mondo: Napoli, appunto, scrigno di canzoni, leggenda che inizia con il mito delle Muse. Canzoni e cantanti, musicisti e poeti, personaggi reali e leggendari sono i protagonisti di un film che attraversa una delle metropoli più belle, famose e controverse del mondo. L’occhio straniero, ma non troppo, dell’attore-regista italo-americano attraversa la città e le sue musiche, dal Canto delle lavandaie del Vomero del Duecento a ‘Napul’è’ di Pino Daniele, rievoca storie lontane e miti vicini, alterna l’amarcord alla ricostruzione, la sceneggiata al videoclip, la storia della canzone alle storie che le canzoni narrano e nascondono. Immagini delle grandi voci di un passato ormai remoto si sovrappongono a quelle di interpreti moderni, capaci di proseguire una tradizione gloriosa, ricreandola e rinnovandola. Così la voce di Mina apre la strada a quella di Pietra Montecorvino, e le sperimentazioni di Raiz, Almamegretta e M’Barka Ben Taleb incorniciano l’incontro di Massimo Ranieri con Lina Sastri; tra gli exploit di Fiorello (che napoletano non è, ma che canta e balla come se lo fosse insieme all’amico attore-autore) e Gennaro Cosmo Parlato e le memorie in musica di Avion Travel, Peppe Barra e James Senese. Un’orchestra d’eccezione per un repertorio che parla di amore, sesso, gelosia, immigrazione, protesta. Ogni canzone si trasforma in una piccola sceneggiatura, una cartolina sentimentale spedita da una città e dalle forze che la muovono. Una sorta di “Carosello Napoletano” del terzo millennio.
Passato anche, nelle Giornate degli Autori, “L’amore buio” di Antonio Capuano, da ieri nelle sale. Un dramma, duro e amaro, che rivela le due facce della sempre amata/odiata Napoli, attraverso una (non) storia d’amore. Già perché il tortuoso rapporto fra Ciro – rappresentante delle classi meno abbienti - e Irene – ragazza della società bene - nasce dopo uno stupro di gruppo di cui lei è stata vittima e lui uno dei carnefici. Ma è anche l’incontro fra due solitudini segnate non solo dal disagio adolescenziale. Assecondano i giovanissimi protagonisti non professionisti (scelti fra gli studenti delle scuole napoletane), un’inedita ed efficace Valeria Golino (la psicologa), Luisa Ranieri (madre di Irene) e il rimpianto Corso Salani (il padre), scomparso poco fa a soli 49 anni, alla sua ultima apparizione sul grande schermo.
José de Arcangelo