sabato 27 giugno 2009

Alle Mostra del Nuovo Cinema, l'altra faccia di Israele e lo psicothriller di Felice Farina

PESARO, 27 - Ancora un documentario di grande impatto e lucidità, per la monografica sul Cinema Israeliano Contemporaneo, “Check Point” di Yoav Shamir, girato nel corso di tre anni – tra il 2001 e il 2003 -, con il sostegno finanziario della stessa Israel Film Fund. Uno sguardo compassionevole e al tempo stesso imperturbabile sulla vita che si svolge nelle zone di confine che separano Israele dai territori palestinesi. I posti di blocco dove si controlla il passaggio di uomini, donne e bambini lungo alcune delle strade tra Israele, Gaza e la Cisgiordania. Fra tensione e sorrisi, fra tenerezza ed umorismo, fra paura e rabbia, un cineverità che coinvolge e aiuta a ‘vedere’ una drammatica realtà molto da vicino.

“Ho realizzato questo film per il mio popolo – dice il regista -, la mia famiglia e gli amici che rappresentano quella parte della società israeliana che ha scelto di non sapere cosa succede così vicino a noi”.

Particolarissimo e personalissimo è invece “The Confessions of Roee Rosen” che inizia con l’artista che annuncia la propria morte imminente e rinnega una carriera piena di bugie, scandali e false identità. Le confessioni sono trasmesse da tre portavoce – tre lavoratrici straniere che risiedono in Israele – che recitano tre monologhi in ebraico, una lingua che non conoscono. Le oratrici dunque ignorano il significato dei testi, una sorta di ibrido: basati sì sulla vita di Rosen ma al contempo parzialmente plausibili come dichiarazioni delle stesse lavoratrici immigrate.

Un’altra commedia arriva dall’ebreo-georgiano Dover Kosashvili – di cui in Italia abbiamo visto e apprezzato qualche anno fa “Matrimonio tardivo” -, “Dono dal cielo”. Una sorta di commedia all’italiana in salsa georgiana, visto che questi israeliani così particolari portano avanti quel mix esplosivo tra due popoli e due culture: esuberanti e appassionati, senz’altro tipicamente mediterranei.

Un gruppo di addetti ai bagagli, immigrati dalla Georgia, progettano un furto di diamanti ai danni della Shtrenchman Srl., una società che importa ogni settimana due sacchetti di pietre grezze a Tel Aviv per mezzo di una linea aerea sudafricana. Si devono però assicurare che nessuno noti la scomparsa dei diamanti dopo l’atterraggio dell’aereo. Ma realizzazione del grosso colpo – un po’ ricorda “Operazione San Gennaro” di Dino Risi ma non solo – si complica a causa degli intricati e numerosi legami sentimentali in cui i protagonisti di questa ‘famiglia allargata’ sono coinvolti. In pratica sette storie una dentro l’altra che non possono provocare altro che equivoci e conflitti a non finire. Finale aperto, e a sorpresa.

Impossibile, infine, non segnalare “Description of a Memory” di Dan Geva (2006) – proiettato stamattina -, una lucida riflessione attraverso i segnali/segni della storia e del proprio passato, con cui il regista non solo si confronta con “Description of a Struggle” di Chris Marker (1960), ma anche con la sua propria storia e quella del suo paese di origine. Un viaggio in parallelo tra memoria e attualità, tra indagine e scoperta, tra cinema e suggestioni (da esso provocate).

“Il mio viaggio in Israele – afferma l’autore – non si limita all’aspetto visuale e simbolico del film-poema di Marker, si addentra anche nelle parti filmiche più nascoste, cercando disperatamente di decostruire e ricostruire i frammenti evanescenti del messaggio criptico, profetico e impegnativo che il regista francese ci ha lasciato”. E in questo viaggio – a tappe/ricordi – siamo coinvolti anche noi spettatori e il nostro passato, così vicino così lontano.

Ma ieri è stata la giornata del sorprendente “La fisica dell’acqua” di Felice Farina, un thriller psicologico visto attraverso gli occhi del bambino protagonista. Un’indagine della/nella mente di un ragazzino a cui è stata negata/cancellata la verita. Quindi, fra realtà e allucinazioni, fra trauma e ossessioni, un dramma che parte dalla fine per seguire le tracce di un ‘giallo’ che si rivelerà sconvolgente ed emozionante anche per lo spettatore.

Un modo nuovo per indagare su temi a noi vicinissimi come sentimenti e psiche, paure e rimossioni, il tutto raccontato con un gusto dell’inquadratura e dell’immagine che raramente troviamo nel nostro cinema, anche perché in questo caso la commistione di generi è di alto livello e di grande efficacia. Indegna pensare che Farina abbia dovuto aspettare sei anni per finire il suo film – in mezzo un fallimento, la partecipazione di Rai Cinema che non si è più occupata – e che, dopo averlo ‘liberato’ e finito, con il prezioso appoggio della montatrice Esmeralda Calabria, si sia trovato senza una distribuzione. Ora, grazie a Renzo Rossellini, sembra averla trovata. La sua uscita è assicurata, ma è presto per dire quando.

Per il concorso, abbiamo visto l’altra sera “Medicine for Melancholy” di Barry Jenkins, una storia d’amore nata da un incontro casuale e dall’avventura di una notte diventa un confronto tra due ventenni afroamericani su questioni di classe, di cultura, di identità e su cosa significhi appartenere a una minoranza etnica a San Francisco. Un dramma sobrio e delicato che a tratti ricorda il primo Spike Lee, quello di “Lola Darling”, non solo per l'uso del bianco e nero (il colore decolorato), ma soprattutto nella struttura e nella ricerca dell’inquadratura.

Il regista dice a proposito della sua opera prima: “Racconta quanto oggi sia complesso appartenere a una minoranza in declino nella maggiori città d’America e nei centri culturali. Essere afroamericani richiede allora una forza maggiore sia per far valere la propria identità che per confrontarsi con le minoranze storicamente meno rappresentate”.

Ieri, invece, è toccato a “The Day After” di Lee Suk-gyung (2008), un dramma femminile – forse troppo parlato nella parte centrale – su divorzio, lavoro (professione), figli e solitudine. Una scrittrice di mezza età, divorziata da poco, è depressa e spesso in conflitto con la figlia adolescente. Durante un viaggio di lavoro divide la stanza con un’altra divorziata. Le due donne passano la notte bevendo birra e dividendo storie mai raccontate prima. Decideranno che è ora di cambiar vita.

“Per chi abita vicino alla città più moderna della Corea del Sud – dice l’autrice -, il ritmo di vita è così rapido da far abituare le persone comuni a nascondere le proprie sofferenze e a indossare maschere sociali”.

José de Arcangelo