domenica 28 giugno 2009

Alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro è la giornata di Alberto Lattuada


PESARO, 28 – Oggi è la giornata dedicata ad Alberto Lattuada, uno dei maestri - finalmente riconosciuto - del nostro cinema, forse oscurato da altri ma sottovalutato e, purtroppo, dimenticato negli ultimi trent’anni quando, come altri illustri colleghi, era passato alla televisione. Ha preceduto il convegno che si è svolto oggi, e di cui parleremo più a lungo nei prossimi giorni, la proiezione in piazza di uno dei suoi film più ambiziosi e incompresi degli anni Settanta: “Cuore di cane” (1976), tratto dall’omonimo romanzo di Bulgakov, adattato per il grande schermo dallo stesso regista. Un film allora sottovalutato, per fortuna non da tutti, che però è pressoché caduto nell’oblio per oltre tre decenni. Un dramma, forse in anticipo coi tempi, sebbene ambientato nel passato, nella Russia dei primi anni della Rivoluzione sovietica. E Lattuada va oltre il romanzo – come disse allora Callisto Cosulich su Paese Sera - “concedendogli una maturazione ignota”. L’uomo ritornato cane diventa simbolo della rivolta contro “una scienza spesso irresponsabile”. Che ancora (e soprattutto) oggi è oggetto di continue polemiche e dibattiti.

L’altra sera si è conclusa, invece, la retrospettiva-omaggio a Paolo Gioli con l’ultimo programma ‘Storie/Memorie”, seguito da una tavola rotonda con l’autore, Adriano Aprà, Bruno Di Marino, Giacomo Daniele Fragapane e Mark McElhattan. Il suo cinema – anche se Gioli preferisce che si dica i suoi film – è un ‘lavoro’ di suggestioni, di rimandi, che induce a ricordare, rimuovere e recuperare sensazioni ed emozioni nascoste nella nostra mente/memoria. Se le ‘visioni notturne’ della notte precedente giocavano sulla falsariga di Eros e Thanatos, rielaborando e reinventando immagini comunemente denominate pornografiche – che a qualche ipocrita-nostalgico può aver dato ancora fastidio -; “Anonimatografo” (1972), “I volti dell’anonimo” (2009), “Volto sorpreso al buio” (1995) e “L’operatore perforato” (1979) sono sempre frutto di una sperimentazione pura e artigianale, in senso positivo, perché è il metodo dell’artista che (ri)elabora con ‘i propri mezzi’. In questo caso con vecchie foto, lastre e spezzoni che altrimenti sarebbero rimasti nel dimenticatoio e che invece così riacquistano nuova vita e inaspettata neoespressione, proiettandosi addirittura nel futuro. Non è un caso che Gioli ‘giochi e provi’ (con) tutti i dispositivi della macchina da presa ‘smontandola’ letteralmente, rimontandola e ‘reinventandola’, come fa anche con le sue immagini e con quelle degli altri, spesso anonimi anch’essi.

Dice Fragapane: “Forse la miglior definizione del cinema di Gioli l’ha – inconsapevolmente – coniata Ludwig Wittgenstein, allo scopo di circoscrivere la necessaria, ineliminabile e ‘fondante’ dimensione convenzionale del linguaggio. Per Wittgenstein ogni problema di natura linguistica è descrivibile mediante un ‘esercizio mentale’. Un esercizio mentale è un ‘congegno’ per mezzo del quale, all’interno di una determinata configurazione culturale, si può verificare la risposta cognitiva a un dato problema in una data situazione. La logica del gioco vi concorre in maniera determinante (il filosofo austriaco ricorre altrettanto frequentemente alla nozione di ‘gioco linguistico’) nella misura in cui delimita il campo d’azione, traccia i confini dell’esercizio e definisce le su regole di funzionamento – e, dunque, ad esempio, la meccanica dell’inizio-svolgimento-fine del processo di conoscenza. I film di Gioli rispecchiano sostanzialmente questo schema cognitivo”.

L’ultimo film “Children” (2008) non è stato proiettato/accettato nella retrospettiva dedicata all’artista dal Moma di New York, forse perché nel ‘gioco’ stavolta è stata coinvolta (tramite un vecchio set fotografico) la famiglia di JFK – Jackie inclusa - e soprattutto la figlia, al momento della manifestazione nella lista dei candidati alle elezioni.

Ancora sorprese dal cinema israeliano contemporaneo con “Year Zero – Anno zero” di Joseph Pitchhadze, un’amara commedia in bilico tra problemi esistenziali e materiali. Le storie incrociate di Michal e Reuben, una coppia di quarantenni che non vuole avere figli, ma lei scopre di essere incinta; un cieco di mezza età che vive col suo amato cane Maxime; Anna che viene sfrattata col figlio di dieci anni e perde il lavoro nella stessa giornata; Kagan, un trentenne solitario e introverso, che sta registrando un programma sul padre, fondatore (in anticipo) del movimento punk in Israele; Matti, un venditore d’armi che sembra di offrire ad Anna la possibilità di evitare di prostituirsi…

Subito dopo, il duro e crudo “Or/Mon Tresor” (Or/Tesoro mio) di Keren Yedaya (2004), un dramma di sconvolgente attualità – non solo israeliana -, doloroso e sconvolgente, inedito (per un pubblico occidentale) e disarmante anche per lo spettatore. Ruthie e Or, madre e figlia diciassettenne, vivono a Tel Aviv. Ruthie si prostituisce da vent’anni e la sua salute peggiora sempre di più. Or, che inutilmente ha provato a levare la madre dalla strada, è giovane, bella, ha degli amici e un ragazzo. La sua quotidianità è fatta di piccoli lavori: lavapiatti in un fastfood, pulizie delle scale, raccolta delle bottiglie; senza dimenticare la scuola. Ma dopo l’ennesima visita in ospedale a sua madre e ‘dell’intimidazione’ a lasciare il suo ragazzo, Or decide di cambiare vita ma…

Presentato ieri anche il documentario di Andrea Caccia “Hospice” che in meno di mezz’ora ci riporta dentro quei luoghi dove, apparentemente, si attende la morte. Infatti, l’Hospice è una struttura intraospedaliera che ha sia le caratteristiche della casa, sia quelle dell’ospedale. E’ un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo al fine di migliorarne la qualità della vita. “Mi piace pensare – confessa l’autore – a questo film come a una sorta di viaggio. In un mondo sconosciuto (ai più ndr.). In uno spazio non esplorato. Un viaggio alla fine di un corridoio. Alla ricerca di un respiro. Di un segnale di vita invisibile, da raccogliere e custodire attraverso lo sguardo. Per comprendere, preservare, raccontare il ‘pianeta’ Hospice”. Appunto. E il tutto raccontato con la delicatezza e la sobrietà di un ‘visitatore’ che non invade né pretende, anche quando il film è stato realizzato su commissione per un convegno. Anzi, evita tutta la ‘formalità’ sociale e scientifica, dicendo molto di più di un tg specializzato.

Nella stessa sezione Bande à part sono stati proiettato il documentario malese “Malaysian Gods” di Amir Muhammad. Nel settembre 1998, Anwar Ibrahim fu dimesso dalla carica di vice Primo Ministro della Malaysia. La sua espulsione e il successivo processo per corruzione e sodomia causò un’ondata di proteste da parte dei suoi sostenitori e di coloro che erano contro l’autorità del governo. Il film pone lo sguardo sulle tante proteste che ebbero luogo nell’anno successivo al ‘licenziamento’ e privilegiando le interviste alle persone che oggi vivono, lavorano e visitano i luoghi delle manifestazioni. Proprio per questo risulta più obiettivo e interessante anche per il pubblico occidentale.

Ma anche “Blind Pig Who Wants to Fly – Il porco cieco che vuole volare” di Edwin (Indonesia, 2208), una commedia sentimental-grottesca-esistenziale, trasgressiva e romantica al tempo stesso. Linda e Cahyono si incontrano e riaccendono la loro amicizia dell’infanzia; Halim dice a Verawati che vuole prendere un’altra moglie; Salma riesce ad andare nello show televisivo ‘Planet Idol”; i gay Romi e Yahya si danno a pratiche sessuali; Opa muore e Romy sparge le ceneri insieme a Cahyono che ha finalmente iniziato ad alzare lo sguardo.

Il film, secondo l’autore, “racconta di speranze che non possono mai realizzarsi. La speranza di non essere un maiale cieco che vuole volare. La speranza di non essere un cinese in Indonesia. Dietro queste storie c’è la ricerca dell’identità”. Infatti, Linda è cinese e anche il suo amico viene discrimanto/punito.

In occasione del premio speciale a Marco Bellocchio è stato presentato “…Addio al passato”, un documentario sulla lirica, realizzato dal regista di “Vincere” qualche anno e che ha introdotto un incontro/chiacchierata su cinema e musica.

L’ultimo film in concorso è un documentario che ci tocca da vicino: “Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi” di Ian Olds (Usa-Afghanistan, 2009) perché ricostruisce la storia del giornalista-interprete afgano Ajmal Naqshbandi, sequestrato insieme al giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo, ma che anziché venir liberato come il nostro connazionale (per lui non sono state accettate le richieste dei sequestratori) è stato ucciso dai talebani. Il film segue la (precedente) collaborazione di Naqshbandi e il giornalista americano Christian Parenti, per poi ricostruire la vicenda del sequestro attraverso trattative, filmati e testimonianze, tra cui quella del padre e dei colleghi di Ajmal.

“Quando sono venuto a conoscenza della sorte di Ajmal – dice il regista -, la mia prima reazione è stata di abbandonare completamente il progetto. Ma più pensavo a ciò che avevo già filmato con lui, più ero certo che dovevo portarlo a termine. C’è un insieme di forze che hanno condotto alla sua morte. Capire quali siano state è diventata la linea guida del film”.

E stasera c’è l’attesa serata di premiazione in Piazza. Ne parleremo domani.

José de Arcangelo