domenica 31 agosto 2008

Venezia 65°. Una tragedia (quasi) perfetta secondo Ferzan Ozpetek

VENEZIA, 30 - E’ stata la giornata di Ferzan Ozpetek alla 65a. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nonostante una certa delusione da una parte e una sorta di bocciatura dall’altra, con un coro di fischi, forse, esagerato a fine proiezione (stampa-industry). Certo non è l’Ozpetek migliore quello di “Un giorno perfetto”, storia corale, tratta dal romanzo omonimo di Melania G. Mazzucco, adattato dal regista con Sandro Petraglia. Il clou della storia è una tragedia familiare annunciata a cui si collegano altre storie, legate in un certo qual modo ai diversi componenti del gruppo. E, forse, sono proprio queste storie parallele a non raggiungere la forza e la drammaticità (credibilità?) giusta, mentre la disperata crisi matrimoniale ha un crescendo emotivo non indifferente. Così come non mancano riferimenti illustri che, naturalmente, gli si rivolgono contro, anzi gli nuocciono. Vedi la scena del tentato stupro che, soprattutto, per l’ambientazione rimanda a quella agghiacciante di “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti.

“Desiderare un’altra persona – ha detto Ozpetek – nel modo in cui avviene in ‘Un giorno perfetto’ è una cosa che mi affascina molto. Non si capisce chi è la vittima e chi è il carnefice; alla fine si confondono. Forse il carnefice è semplicemente la vita”.

Però ogni famiglia è un mondo a sé, cambiano spesso le situazioni e le condizioni, le cause e le conseguenze delle tante, troppe, tragedie familiari che ci ricorda la cronaca quotidiana, e sempre e comunque ci sembrano inspiegabili, viste ‘dal di fuori’. Caso e destino c’entrano e non c’entrano, caso mai possono provocare una “variazione”. Ma sono spesso disperazione e ossessione a provocarle, proprio da un momento all’altro, quando meno te l’aspetti. Amore e odio, eros e thanatos hanno dominato i rapporti di coppia fin dagli albori della civiltà. E le cause di ogni tragedia sono spesso indecifrabili perché legate a una (non lucida) follia d’amore in tutte le sue sfumature.

Supercast dove spiccano un sempre più maturo Valerio Mastandrea, un efficace (ma non troppo) Isabella Ferrari, l’ormai “nonna” a tutti gli effetti (anche nel film) Stefania Sandrelli e un’inedita Monica Guerritore, sobria e rassegnata professoressa.

L’altro film in competizione è il francese “L’autre” di Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic, un surreale ritratto psicologico al femminile, che fa della sperimentazione e della ricerca narrativa il suo punto di forza. Questo, purtroppo, non tutto il pubblico l’apprezza, anzi. Una matura assistente sociale ha una relazione con un giovane di colore che vorrebbe ‘impegnarsi’. Lei, invece, ritrovata la libertà dopo la fine del matrimonio, non vuole ma poi, quando lui sembra aver trovata ‘un’altra lei’ diventa ossessivamente curiosa, gelosa; quasi a instaurare una sorta di lotta ad specchi con se stessa.

Fuori concorso l’altro corto da maestro, ovvero “Vicino al Colosseo… c’è Monti” un fresco e interessante documentario sul quartiere romano tra botteghe artigiane al tramonto e locali notturni, tra processioni e sale da giochi, tra centro anziani e ritrovo dei giovani, tra palestre di boxe e bar storici.

Nella sezione “Orizzonti” è stato presentato un altro interessante documentario “Puisque nous dommes nés” (Visto che siamo nati) di Jean-Pierre Duret e Andréa Santana e girato interamente nel nordest del Brasile, al seguito di due ragazzini che fanno di tutto (anche lavoro gratis) pur di sopravvivere ed aiutare le loro famiglie, e il cui loro grande sogno è diventare camionisti per lasciare la regione (la più povera del paese sudamericano) e guadagnare finalmente da vivere dignitosamente. Ma non è facile, tanto che ad un certo punto, uno dei ragazzi medita il suicidio.

Per le “Giornate degli autori” il riuscito “Nowhere Man” di Patrice Toye, in bilico tra (melo) dramma e commedia, storia di un uomo (di Bruxelles) che decide di cambiare identità per scomparire e diventare un altro dall’altro capo del mondo. Così approfitta di un incendio per inscenare la sua morte, ma il peggio è che ha una moglie che scoprirà di amare ancora. Una ‘variazione sul tema’ raccontata con originalità e con una sottile ironia. Quindi è inutile fuggire da se stessi, anche perché la lontananza serve a farci capire meglio quali sono le cose e le persone che amiamo.

La Settimana della Critica ha proposto invece un intenso e toccante dramma psicologico “Venkovsky Ucitel – A Country Teacher” di Bohdan Slama. Storia di un trentenne professore che accetta un lavoro in una scuola di campagna per non insegnare nello stesso liceo di Praga in cui lavora l’ingombrante e invadente madre. Instaura un rapporto di amicizia con una vedova che manda avanti la fattori da sola con il figlio adolescente, ma l’uomo nasconde a tutti di essere gay, per paura di perdere la loro amicizia, la loro fiducia. Ovvio che tutti questi sentimenti e passioni represse finiranno per sfiorare la tragedia, ma solo sfiorarla, perché ognuno di loro capirà che l’importante è non restare soli e, quindi, che si può amare profondamente anche senza che ci sia per forza del sesso.

José de Arcangelo

sabato 30 agosto 2008

Festival di Venezia. Kitano e Arriaga non deludono, la "città di plastica" sì


VENEZIA, 29 - Takeshi Kitano non delude nemmeno quando lascia da parte thriller e azione per raccontare un dramma (in commedia), come in questo caso: “Akires to kame – Achille e la tartaruga” che prende spunto dall’arte contemporanea per farci riflettere non solo sulla creatività, ma anche su moda e mercato.

Machisu, figlio unico di un ricco collezionista d’arte, ha una passione infantile per la pittura. I complimenti di un amico del padre lo inducono a sognare di diventare un giorno pittore. Ma il padre finisce in rovina e si suicida. Il ragazzino, diventa un orfano senza più privilegi, tanto che finisce sotto la cura dello zio che, tradito dal fratello, lo maltratta e non lo vuole nemmeno mandare a scuola. Machisu, comunque, continua a dipingere dove gli capita, fa amicizia con un folle pittore dilettante che però finirà tragicamente. Diventato un ragazzo solitario, Machisu riesce a pagarsi gli studi all’accademia di belle arti lavorando in officina. Ma non demorde, muove i primi passi nel mondo della creatività però riceve le prime amare critiche da parte di un gallerista. E, volendo seguire alla lettera i consigli dell’altro, il pittore finisce per “copiare” oppure a dipingere su commissione, abbandonando la sua vera ispirazione. Anche dopo aver sposato Sachiko – convinta di essere l’unica a capire la sua arte – che lo sostiene e incoraggia, Machisu continua a essere un pittore poco quotato e insoddisfatto. E continuerà ancora ad esplorare in modo sempre più radicale, però se vogliamo ‘modaiolo’, la sua ispirazione alla ricerca disperata di un riconoscimento.

“E’ il terzo film della mia trilogia – dice Kitano – sull’arte e lo spettacolo. In ‘Takeshis’ ho voluto raccontare il conflitto psicologico tra me stesso e il mio personaggio mediatico, mentre in ‘Kantoku banzai!’ ho messo in scena il conflitto creativo dell’artista. Con ‘Akires to kame’ ho trovato la risposta a questi quesiti posti nei due film precedenti: è sufficiente essere coinvolti nell’atto creativo. Il successo del pubblico e della critica sono irrilevanti per il processo artistico in se stesso. Quel che conta veramente è continuare il proprio percorso”.

Per il concorso è toccato a “The Burning Plain”, debutto nella regia del messicano Guillermo Arriaga, già ottimo sceneggiatore per Gonzalez Inarritu, con Charlize Theron e Kim Basinger. Ancora un dramma di sentimenti e passioni, raccontato parallelamente in tre tempi diversi – passato, passato prossimo e presente -, non storie incrociate ma la stessa storia che coinvolge la protagonista dall’adolescenza alla maturità.

Infatti, il dramma analizza il legame misterioso e ambiguo che unisce diversi personaggi separati nello spazio e nel tempo. Racconta come in un puzzle, le vicende della sedicenne Mariana che cerca di rimettere disperatamente assieme i cocci della vita matrimoniale dei genitori, in una città di confine col Messico; Sylvia, una bellissima donna di Portland che non riesce più ad avere una relazione vera e deve affrontare un’odissea emotiva per cancellare un peccato del suo passato; la bambina Maria che vive col padre ed è costretta a cercare la madre; infine Gina e Nick, una coppia alle prese con un’intensa relazione clandestina che finirà tragicamente. Ed è questa storia il clou dell’intera vicenda, che però scopriremo pian piano…

“La storia del film – ha dichiarato Arriaga – nasce dal mio profondo amore per la condizione umana e per la natura, che per me in fondo sono una cosa sola. Volevo raccontare storie di amore estremo, basando ciascuna di esse su uno dei quattro elementi: fuoco, terra, acqua e aria; storie in cui fossero la luce, i suoni, gli animali e la vegetazione a dare uno spazio fisico ed emotivo ai personaggi, quasi come il paesaggio stesso si facesse personaggio”.

E i sentimenti e le emozioni, appunto, il senso di colpa, il rimorso, il perdono e la redenzione

Anche il cinese-brasiliano “Dangkou – Plastic City” di Yu Lik-wai, girato interamente in Brasile e parlato in quattro lingue (portoghese, cinese, inglese e spagnolo), è in concorso però ha deluso. Anche perché le aspettative erano tante e sulla carta era tutta un’altra cosa. E’ sì un thriller d’azione di nuova generazione, ambizioso ed eccessivo, ma mette appunto troppa carne sul fuoco e si trascina lentamente verso una fine prevedibile. Peccato perché lo spunto viene dal mix esplosivo di globalizzazione, ovviamente economica, pirateria, mafia-yakuza e criminalità internazionale.

Più divertente e graffiante invece il malese della Settimana della Critica “$e11.ou7! – Sell Out!” di Yeo Joonhan che prende in giro le multinazionali e i reality show – ma anche il cinema orientale mirato per il pubblico occidentale – in un mix di generi che dopo un po’ diventa musical. Certo chi non ama il musical non potrà gustarselo fino in fondo, ma ci sono le trovate e le battute che funzionano anche in italiano.

Altro film della sezione è il norvegese “Lonsj – Pranzo freddo” di Eva Sorhaug, un (melo)dramma sul filo dell’ironia che racconta quattro storie parallele sulla scia di “Racconti da Stoccolma”, anche se qui sono “Racconti da Oslo”. Una donna che, dopo l’improvvisa morte del padre, deve affrontare la vita reale che sembra non aver mai conosciuta, perché viene sbattuta fuori casa; un giovane che vive grazie al sostegno degli altri – e quello che in un certo senso innesca le altre storie - capirà che a un certo punto bisogna arrangiarsi da soli; una giovane coppia con figlioletto non trova l’equilibrio e rischia la rottura; una donna matura ritrova se stessa e la libertà dopo la pensione. Un fatto-citazione-omaggio unisce nella conclusione le diverse storie, stormi di uccelli apparentemente impazziti invade la città, come in “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock. Forse gratuito, ma dà all’insieme quell’atmosfera rarefatta e inquietante della nostra società contemporanea.

Per “Orizzonti” abbiamo visto “Zero Bridge – Ponticello Zero” di Tariq Tapa, anche questo una sorta di docu-fiction girata nel Kashmir e che narra le vicende di Dilawar, ribelle diciassettenne che vive nella periferia della città di Srinagar con il severo zio muratore. Per sbarcare il lunario, il ragazzo lavora come apprendista muratore, ma preferisce farsi pagare dagli ex compagni di scuola per i compiti di matematica o fare qualche scippo al mercato. Ma durante una commissione all’ufficio spedizioni, Dilagar incontra la ventottenne Bani e tra i due nasce uno strana rapporto…

Interessante dal punto di vista documentario – infatti ci fa conoscere le condizioni sociali in quella regione dell’India -, “Ponte Zero” dal punto di vista narrativo resta in bilico fra tradizione e ricerca, mentre da quello contenutistico resta ambiguo e irrisolto fino alla fine.

José de Arcangelo

venerdì 29 agosto 2008

Al Lido, delude Barbet Schroeder, seduce l'Iran di Kiarostami e Motamedian

VENEZIA, 28 – Dopo i fratelli Coen, è arrivato Abbas Kiarostami – anche lui fuori concorso – e Takeshi Kitano che, invece, è in competizione. Il film di Kiarostami “Shirin” è un “esperimento” particolare perché narra il poema persiano del XII secolo, “Khosrow e Shirin”, scritto da Negami Ganjevi, ma attraverso uno spettacolo teatrale messo in scena dallo stesso regista ma non che non vedremo. Una favola raccontata attraverso i dialoghi e lo sguardo degli spettatori, anzi delle spettatrici, che sono la maggioranza, e ‘interpretate’ da cento quattordici famose attrici iraniane di cinema e di teatro e una star francese: Juliette Binoche.

“Il poema persiano – dice il regista – racconta la storia di Shirin, principessa di Armenia che si innamora di Khosrow, re di Persia. Shirin rinuncia al trono per questo amore impossibile, ma in Iran si innamora di un altro uomo, Farhad, scultore e architetto. Nasce così il primo dramma poetico persiano basato su un triangolo amoroso ed è questa l’opera teatrale a cui assistono le 114 attrici che interpretano il film.

Attraverso questa esperienza ho finalmente realizzato un desiderio che avevo fin dai tempi in cui ancora non lavoravo nel cinema: osservare lo sguardo degli spettatori”.

Quindi chi non ama la mancanza assoluta di azione, forse, l’odierà (e lascerà la sala come hanno fatto alcuni) mentre chi ama il cinema d’autore e ogni possibilità espressiva, riuscirà a stare al “gioco” e ad immaginare questa antica favola morale attraverso gli intensi sguardi delle spettatrici.

Iraniano anche il “film a sorpresa” della sezione Orizzonti: “Kastegi - Tedium”, opera prima di Bahaman Motamedian. storia di sette transessuali iraniani alle prese con i consueti pregiudizi, la solita omofobia, le tradizioni, la religione (che però non condanna) e via dicendo. Questi “ostacoli” non sono poi molto diversi da quelli che devono affrontare i loro simili anche in Europa. Anche perché la ‘legge’ iraniana, soprattutto quando si tratta di maschi che si sentono donne, non li punisce. Anzi, dichiara in torto la famiglia che li ripudia. Una docu-fiction piena di sorprese e di sentimenti che parla della “diversità” con delicatezza e passione.

L’altra sorpresa della sezione è il cinese “Perfect Life” della regista Emily Tang Xiaobai (già menzione speciale a Locarno 2001 per la sua opera prima). La condizione femminile – come si diceva una volta - nella Cina contemporanea attraverso i ritratti di due donne, una giovane e l’altra meno giovane. I problemi sono ormai globali come il lavoro, la famiglia, i rapporti. Un dittico raccontato in parallelo, ora amaro ora spiazzante, ma comunque, intenso e, forse, troppo “lento” per il gusto dello spettatore occidentale.

Le vicende della ventunenne Li, bugiarda per forza, e della più matura Jennifer sono destinate a incrociarsi. La ragazza lascia il suo paese, nel Nordest, per accompagnare un disabile a Sud, verso (la mitica) Hong Kong. La seconda decide di divorziare dal marito che l’ha portata alla rovina e di scappare.

Partita dal documentario, l’autrice afferma: “E’ costruito sull’unione di finzione e materiale documentario. Ciò che mi interessa non è sperimentazione, ma esplorare la tensione e l’azione drammatica che nasce da contatti casuali tra finzione e realtà”.

Sempre per “Orizzonti”, vista anche un’altra docu-fiction, stavolta filippina, “Jay” di Francis Xavier Pasion, che prende spunto dalla “tivù del dolore” a cui l’Italia non è estranea. Jay, insegnante gay, viene brutalmente ucciso. Prima ancora che la famiglia ne venga informata, un giovane produttore televisivo – di nome Jay, come la vittima – si presenta nella casa con una troupe per una sorta di documentario-reality show, anzi reality-shock, per documentare il dolore della madre e dei fratelli.

Quindi, anche nel film realtà e finzione si confondono, recita e vita si mescolano, tanto che alla fine, forse, ne sapremo meno di prima, soprattutto del delitto.

“Avendo lavorato come autore e produttore – confessa Pasion – in una delle principali reti televisive delle Filippine, ho avuto modo di assistere a tante forzature, tutte compiute nel nome della televisione. In tivù la verità non è mai abbastanza. I particolari di una storia possono essere coloriti (il che non significa cambiati o alterati) al fine di renderli più spendibili in video. Mi auguro che dopo aver visto questo film il pubblico diventi più critico e giudizioso davanti a ciò che viene mostrato loro in televisione o su altri media. In quest’epoca di tecnologie digitali, in cui le immagini e le informazioni affollano la nostra coscienza collettiva, la verità è qualcosa di assoluto, relativo o del tutto in conoscibile?”

Per la settimana della critica è stato presentato il bosniaco “Curari noci” (Guardiani notturni) di Namik Kabil, un dramma sulle conseguenze di un’atroce guerra che ha trasformato i sopravvissuti in una sorta di morti viventi, torturati da malanni provocati da angoscia e depressione. Attraverso il ritratto di due guardiani notturni di un centro commerciale viene fuori tutta l’amarezze e un velato senso di colpa di essere ancora vivi, rimossi da un ‘folle’ reduce che, tramite l’alcol, butta fuori tutta la sua rabbia. Un altro film da scoprire lentamente, nell’assenza di vera azione e nel tentativo di un’analisi psicologica dei personaggi.

Deludente il thriller esotico di Barbet Schroeder “Inju – La bete dans l’ombre”, dal romanzo di Edogawa Rampo. Un inizio scattante ed efferato, velato da una certa ironia, viene dopo mezz’ora lasciato da parte privilegiando una ‘patinata convenzionalità’. Anche perché la vicenda scivola pian piano nel prevedibile – almeno per chi segue il ‘genere’ – e l’enigma si scopre, forse, troppo presto. E, più di Benoit Magimel – protagonista maschile – funziona l’ambigua Lika Minamoto, sua partner.

Alex Fayard, professore, esperto dello scrittore nipponico Shundei Oe – che tutti conoscono ma nessuno ha mai visto - e scrittore a sua volta di polizieschi di successo, viene invitato in Giappone per l’uscita del suo nuovo libro. Ma, già sull’aereo, riceve un’intimidazione da parte del suo “collega”, che lo invita a lasciar perdere. Una volta a Kyoto, invece Tamao, una bellissima geisha gli confida le sue angosce: anche lei è minacciata di morte da un suo ex amante che potrebbe essere proprio Shundei Oe.

“Alex Fayard – commenta il regista – è molto impressionato da lavoro e dal successo di Shundei Oe. E’ così affascinato che inizia a scrivere libri alla maniera di Shundei e viene così riconosciuto a livello internazionale. E’ quindi quasi come un usurpatore che sbarca in Giappone, accecato dalla propria sicurezza di scrittore e arroganza da occidentale. Ma è anche un innocente disposto a essere turbato. Che cerchi inconsapevolmente una sorta di punizione? ‘Ingu’ è anche un film sul cinema, una riflessione del fascino che esercita in particolare il cinema cosiddetto di ‘genere’ (questo si vede, appunto, soprattutto nella prima parte ndr). Con l’aiuto essenziale di Luciano Tovoli (che firma l’ottima fotografia ndr), sono partito alla ricerca di segreti dimenticati di un certo tipo di cinema, tentando di conferire al film la bellezza fluida di un sogno. Alcune scene di sogno vero e proprio fanno sentire la colpevolezza e le angosce di Alex, uniche scusanti per la sua ingenuità”.

Purtroppo però questi concetti restano solo accennati, anzi si intravedono quasi, sullo sfondo.

José de Arcangelo

domenica 17 agosto 2008

Locarno. Un Pardo d'oro messicano: il toccante "Parque Via". Premio a Ilaria Occhini ("Mar Nero")

LOCARNO, 16 – E finalmente i premiati al 61° Festival del Film di Locarno, consacrati in Piazza Grande. La giuria ufficiale del premio internazionale - composta dall’attrice Rachida Brani (Francia), dal regista Masahiro Kobayashi (Giappone), dall’attore Liron Levo (Israele), dal regista-attore Dani Levy (Svizzera), dalla produttrice Bertha Navarro (Messico) e dai registi Goran Paskaljevic (Serbia) e Paolo Sorrentino (Italia) – ha deciso di assegnare i seguenti premi:

Pardo d’oro, Gran Premio del Festival, della Città e della Regione di Locarno (90mila franchi svizzeri suddivisi in parti uguali tra regista e produttore) al miglior film a “Parque Via” di Enrique Rivero (Messico).

Premio Speciale della Giuria, Premio dei Comuni di Ascona e Losone (30mila franchi svizzeri sempre suddivisi in parti uguali tra regista e produttore) al secondo miglior film, a “33 sceny z zycia” (33 Scenes from Life) di Malgoska Szumowska (Polonia/Germania).

Premio per la miglior regia, Premio della città e della Regione di Locarno (30mila franchi svizzeri) a Denis Coté per “Elle veut le chaos” (Canada). Pardo di Bronso per la migliore interpretazione femminile all’attrice Ilaria Occhini per “Mar Nero” di Federico Bondi (Italia/Romania/Francia) che si è aggiudicato poi, il terzo premio (2.000 franchi svizzeri) della Giuria dei Giovani, offerto dal Dipartimento Cantonale del territorio.

Pardo di bronzo per la migliore interpretazione maschile all’attore Tayanç Ayaydin per “The Market – A Tale of Trade” di Ben Hopkins (Germania/GB/Turchia/Kazakhstan. Infine, Menzioni speciali per il cinese “Liu mang de sheng yan” (Feast of Villains) di Pan Jianlin e per “Daytime Drinking” del coreano Noh Young-Seok.

La giuria del concorso “Cineasti del presente”, composta dal regista, compositore e scrittore francese Bertrand Bonello, dal regista e scrittore ungherese Benedek Fliegauf, dal regista e videoartista brasiliano Cao Guimaraes, dall’attore-regista italiano Corso Salani e dal musicista e compositore svizzero Franz Treichler, ha assegnato i seguenti premi: Pardo d’oro Cineasti del presente, offerto dalla casa di moda C.P. Company, del valore di 30mila franchi a “La forteresse” di Fernand Melgar (Svizzera). Premio Speciale della Giuria Ciné Cinéma Cineasti del presente (l’acquisto del film per 30mila franchi e la messa in onda su Ciné Cinéma) ad “Alicia en el paìs” di Esteban Larrain (Cile). Menzione speciale per “Prince of Broadway”. Niente per gli italiani in concorso in questa sezione, né per quello che sembrava uno dei favoriti cioè “Beket” – anche questo premiato dalla Critica indipendente come il film più significativo - né per “Napoli Piazza Municipio”, nonostante siano sta ben accolti anche dal pubblico. Segno che la giuria non si è trovata d’accordo o non ama (troppo) un certo tipo di sperimentazione, perché comunque i vincitori sono due documentari, anche se realizzati in modo non convenzionale né tradizionale.

Il Pardo per la migliore opera prima, Premio della Città e della Regione di Locarno (sempre 30mila franchi svizzeri suddivisi tra regista e produttore), assegnato dalla giuria composta dalle registe Albertina Carri (Argentina) e Cristi Puiu (Romania) e dalla produttrice Marianne Slot (Francia/Danimarca), è andato all’austriaco “Marz” (Marzo) di Haendl Klaus, presentato nel concorso internazionale. Un dramma che racconta, in modo sobrio, una quotidianità segnata dalla mediocrità, la vita di un paese che, attraverso i silenzi, condivide la stessa tragedia. Però il film non aveva del tutto convinto troppo né il pubblico né la critica, forse, perché ricordava troppo il capolavoro di Atom Egoyan “Il dolce domani”, e il confronto gli nuoce.

I Pardi di domani, riservato ai cortometraggi, e assegnati dalla giuria composta dai registi Fulvio Bernasconi (Svizzera) ed Eran Kolirin (Israele), dal responsabile com per TV5 Monde (Francia), del regista e produttore Dick Rijneke (Olanda) e dall’attrice Orsi Toth (Ungheria), sono i seguenti: Pardino d’oro, Premio SRG SSR idée suisse per il concorso internazionale del valore di 10mila franchi svizzeri a “Dez Elefantes” di Eva Randolph (Brasile); Pardino d’argento, Premio Eastman Kodak Company per il concorso internazionale, sotto forma di pellicola cinematografica offerta da Eastman Kodak per un valore di 12mila franchi, a “Kaupunkilaisia” (Citizens) di Juho Kuosmanen (Finlandia); Premio Film e Video per il sottotitolaggio, offerto dalla società Film und Video Untertitelung Gerhard Lehmann AG, sotto forma di sottotitolaggio in tre lingue dell’Europa Centrale, a “Babin” di Isamu Hirabayashi (Giappone). Menzione speciale per “Resolution” di Pavel Oreshnikov (Russia).

Per il Concorso Nazionale, Pardino d’oro – Premio Ikea del valore di 10mila franchi svizzeri, è andato a “La délogeuse” di Julien Rouyet. Pardino d’argento, Premio Eastman Kodak Company, per il Concorso Nazionale Pardi di domani – sotto forma di pellicola cinetografica per un valore di seimila franchi, a “Un dia y nada” dello svizzero Lorenz Merz. Prix Action Light per la miglior speranza svizzera, sotto forma di buoni in prestazioni tecniche del valore di 40mila franchi svizzeri, offerto da Action-Light, Avant-première, Cinétec, Film Demnachst, Fujifilm, Schwarz Film, Sound Design Studio, Swiss Effects e Titra Film, per “Au Café Romand” di Richard Szotyori. Menzione speciale per “In Wendekreis des Baren” di Ciril Braem (Germania).

Premio Cinema e Gioventù 2008 – Pardi di domani. La giuria, composta da Giovanna Albonico, Pietro Dionisio, Nicola Fiori, Valérie Cognita, Eleonora Guzzi, Jonas Kupferschmid, Sascha Panepinto, Giada Scannapieco, ha assegnato i seguenti premi offerti dal Dipartimento dell’istruzione, della cultura e dello sport del Canton Ticino, del valore complessivo di 3mila franchi svizzeri, da suddividersi tra un film del concorso nazionale e un film del concorso internazionale: Miglior cortometraggio per il concorso internazionale Pardi di domani a “Babin” di Isamu Hirabayashi (Giappone); Menzione speciale per “Ciobanul Zburator” di Catalin Musat (Romania). Per il Concorso nazionale Miglior corto ancora “Au Café Romand”, mentre la Menzione Speciale è andata a “La délogeuse” di Julien Rouyet, già premio Ikea.

Premio Giura dei Giovani, designata tra i partecipanti all’iniziativa “Cinema e Gioventù” e composta da Giulia Baldoni, Beatrice Gatti, Jenna Hasse, Saskia Jarrell, Jamine Leoni, Douglas Mandry, Iréna Pandazis, Alice Pontiggia e Sophie Ruc, per il russo Kirill serebrennikov per il film “Yuriev Den” (Yuri’s Day). Il primo premio, offerto dal Dipartimento cantonale dell’educazione, della cultura e dello sport del Canton Ticino, è del valore di 6mila franchi svizzeri. Il secondo premio (4mila franchi svizzeri) è andato alla polacca Malgoska Szumowska per “33 Scenes from Life”. Il terzo (2mila franchi) all’italiano Federico Bondi per “Mar Nero”.

Premio “L’ambiente è qualità di vita” (3mila franchi), offerto dal Dipartimento cantonale del territorio al lungometraggio che meglio interpreta il concetto, al sorprendente “Sleep Furiously” di Gideon Koppel (GB) che, forse, meritava di più, anche se i documentari presentati nei due concorsi erano tutti di ottimo livello, sia per contenuto sia per qualità artistica. Menzioni speciali per “Elle veut le chaos” di Denis Cote e per “Het zusjevan Katia” (Katia’s Sister) di Mijke de Jong (Olanda), altro dimenticato dalla giuria internazionale.

Prix du Public UBS (20mila franchi), ovvero il premio assegnato al miglior film presentato in Piazza Grande è andato a “Son of Rambow” (Il figlio di Rambo) di Garth Jennings (GB/Francia/Germania), una divertente e, quasi, fumettistica “commedia d’azione” su, per e con ragazzi.

Infine, il Variety Piazza Grande Award, assegnato dalla giuria composta dai critici della celebre rivista americana Derek Elley, Ronnie Scheib e Jay Weissberg a un film in prima mondiale o internazionale presentato in piazza è andato a “Back Soon” dell’islandese Solveig Anspach (Islanda/Francia). Una commedia demenzial-surreale, originale e divertentissima, interpretata da un’attrice tanto brava quanto scatenata: Didda Jonsdòttir, presente al festival insieme ai colleghi del cast internazionale e alla regista. Il premio di Variety si propone di ricompensare film che si distinguono sia per le qualità artistiche che per un potenziale commerciale nell’intento di favorirne la carriera internazionale.

Gli altri premi paralleli: Premio Netpac (per la promozione del cinema asiatico) a “Daytime Drinking” di Noh Young-seok (Coreal del Sud). Premio Fipresci (Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica) al già vincitore del Pardo d’oro, cioè a “Parque Via” del messicano Enrique Rivero. Premio della Giuria Ecumenica, del valore di 20mila franchi svizzeri, messo a disposizione dalle chiese evangelico e cattolico-romana della Svizzera e legato alla distribuzione di un film in patria, a “Mar Nero” di Federico Biondi, che così ha avuto la sua rivincita con un terzetto di premi cosiddetti “minori”. Menzione speciale per “Yuriev Den” di Kirill Serebrennikov (Russia/Germania) che si è aggiudicato invece il Premio FICC / IFFS (Federazione Internazionale dei Cineclub). Premio Arte & Essai Cicae (Confederazione Internazionale dei Cinema d’Arte & d’Essai) a “Sonbahar” (Autunno) di Ozcan Alper (Turchia/Germania). Premio SRG SSR idée suisse / Settimana della Critica, del valore di 8mila franchi, a “Latawce” (Kites) di Beata Dzianowicz (Polonia).

La Critica indipendente presente al 61° Festival del Film di Locarno ha premiato anche con Prix Boccalino d’oro 2008 il regista serbo Goran Paskaljevic (“La polveriera”) perché “oltre ad essere un grande regista, lui è un coerente oppositore dei regimi. Per il suo cinema: sempre attento alla realtà senza mai cadere nel realismo, perché cerca lo straordinario nella realtà di ogni giorno. Un cinema pieno di ironia, dove lo sguardo privilegia sempre la coralità”. La migliore sezione, secondo la critica indipendente, è stata “La settimana della critica”.

Però per il bilancio dell’intera kermesse e per una vera riflessione rimandiamo a domani.

José de Arcangelo

sabato 16 agosto 2008

Al Locarno Filmfest, Ferragosto con lo sciopero degli operai delle Ferrovie nel Ticino

LOCARNO, 15 – Ferragosto all’insegna dello sciopero (e purtroppo ancora della pioggia, nel pomeriggio) al Locarno Filmfest con la presentazione, fuori concorso per “Cineasti del presente” del documentario dello svizzero Danilo Catti “Giù le mani”. Infatti si tratta della cronaca filmata dello sciopero degli operai delle officine delle Ferrovie Federali Svizzere di Bellinzona, guidati dal sindacalista Gianni Frizzo, che ha occupato le prime pagine dei quotidiani svizzeri per un mese (dal 7 marzo al 7 aprile) e ha coinvolto l’intero Ticino.

Una scelta riuscita quella di Catti (sceneggiatore, operatore, suono in presa diretta oltre che regista) che fa parlare i diretti interessati, cioè gli operai, i familiari, la gente comune, facendone una sorta di diario (montaggio cronologico) in cui la controparte fa la sua brutta figura con le ambigue (quando ci sono) dichiarazioni. E lo fa in una durata standard (87’ su 200 ore di girato) segno che ha fatto un ottimo lavoro al montaggio (con Marianne Quarti).

“Sono sbarcato alle Officine – ha dichiarato – lunedì 10 marzo come un turista. Lo sciopero era iniziato venerdì e non conoscevo nessuno. Subito però ho capito che stava succedendo qualcosa di eccezionale, che c’era una logica particolare. Il mio obiettivo era accompagnare lo sciopero per vedere cosa sarebbe potuto emergere dal punto di vista degli operai. Volevo capire chi fossero questi uomini che credono ancora in valori che non sono più di moda, a cominciare dal lavoro e dall’etica del lavoro. Quel che succedeva fuori in fondo non m’interessava”.

Le immagini dei primissimi giorni (la “cacciata del direttore di FFS Cargo Nicolas Perrin il 7 marzo e la manifestazione con invasione dei binari della stazione dell’8 marzo) sono state filmate da altri. “Io – dice il regista – le ho recuperate successivamente, e questo spiega un certo scarto ideologico”. Così come le riprese degli “avversari”, che non hanno voluto farsi filmare, Catti ha dovuto recuperarle da filmati televisivi. A questo proposito, aggiunge: “i padroni si esprimono soltanto quando ritengono di poter controllare la loro immagine”.

Il fatto. La direzione delle FFS annuncia di voler privatizzare la manutenzione dei vagoni e dislocare quella delle locomotive altrove. 430 operai delle Officine Cargo di Bellinzona rischiano il posto di lavoro ed entrano immediatamente in sciopero. “La pittureria”, capannone adibito alla verniciatura dei treni, diventa da subito cuore e simbolo della lotta. Il braccio di ferro tra scioperanti e direzione delle FFS dura 30 giorni e mobilita l’intera classe politica, tanto da costringere il ministro dei trasporti a intervenire. Il 7 aprile l’assemblea dei lavoratori interrompe l’agitazione e dà mandato al Comitato di sciopero di partecipare alla tavola rotonda concordata tra le parti, in vista del mantenimento e dello sviluppo dell’attività nelle officine anche dopo il 2012.

Certo, ora il documentario dovrebbe trovare una distribuzione in sala, almeno in tutta la Svizzera, anche perché nato come film autoprodotto (“Il treno dei sogni”, associazione senza scopo di lucro) e successivamente sono arrivati il sostegno della Rtsi (tivù), il sussidio del Cantone e in conseguenza del Pacte de l’audiovisuel, che hanno permesso all’autore di avere un montatore e un vero missaggio a Zurigo. Ora Catti però pensa di continuare questa “storia” con una seconda parte (o un secondo film).

“Perché è un film svizzero che parla dei problemi di lavoro in Svizzera e in Europa; e sostiene che abbiamo il diritto di essere noi stessi, che la nostra vita ci appartiene, che abbiamo il diritto e forse anche il dovere di dire no”. Segno che l’economia globale e la consequente crisi sono arrivate anche nella Svizzera felix.

Presentati nel pomeriggio gli ultimi film dei due concorsi. Per la competizione internazionale sono stati proiettati il cinese “Li umang de sheng yan” (Feast of villains) di Pan Jianlin e il documentario “Sleep Furiosly” di Gideon Koppel (GB). Il primo è un amaro dramma sul traffico illegale d’organi, fenomeno – purtroppo – in piena espansione in Cina. Una sorta di cupa (e rassegnata) odissea di un giovane disperato. Infatti, Fu-gui lavora senza sosta percorrendo giorno e notte le strade di Pechino a bordo del suo furgone per le consegne, “Felicità Express” (!). Suo padre è gravemente malato e loro non si possono permettere le costosissime cure ospedaliere (anche là, pensavamo fossero ancora gratuite o quasi). Quando le condizioni del genitori peggiorano e ormai senza un soldo, Fu-gui è costretto a riportarlo nel suo misero appartamento. Sconvolto, il giovane legge un annuncio nei bagni pubblici: si offrono grandi somme di denaro in cambio di un rene. La cosa lo aletta ma tentenna perché si tratta di pratiche illegali. Progetta di rubare parte del materiale che trasporta, e poi si pente, però gli viene confiscato il furgone perché adibito al traffico di passeggeri non di merci e non è in grado di pagare la multa. Ormai disperato, Fu-gui si mette in contatto con i trafficanti di organi e affida il padre a un amico per andare a farsi operare. Ovviamente sarà truffato: ha sacrificato un rene per niente, anzi peggio, perché tornato a casa scoprirà che il padre è morto, e dovrà pensare ai funerali. Per niente facile nemmeno questo.

Strano che un dramma di denuncia, contro corruzione e sfruttamento, sia passato inosservato dalle autorità cinesi. Certo, Pan Jianlin denuncia con una certa ironia e humour nero, anzi nerissimo, le inquietanti situazioni in cui si trovano i più disperati, ma al tempo stesso rivela che i servizi sociali non funzionano o sono in mano a potenti corrotti (vedi i medici, uno pretende i soldi subito, l’altro è nel traffico illegale di organi), ma anche altre istituzioni “si passano la palla” (a proposito del certificato di morte).

Il documentario di Gideon Koppel è, invece, un gradevole, gustoso e poetico viaggio nella campagna gallese, un mondo che sembra addormentato e destinato a cambiare, forse, a scomparire.

Ispirandosi alle conversazioni avute con lo scrittore austriaco Peter Handke, il regista posiziona la cinepresa in mezzo ai campi o per terra, nelle stalle o nelle cucine, fissando particolari spesso insignificanti della vita quotidiana. E si vede che Koppel conosce bene e ama questi luoghi in cui i suoi genitori, due artisti fuggiti dalla Germania nazista, hanno trovato rifugio. E sono azzeccate le musiche, tra naturalismo e sperimentazione, di Aphex Twin, uno dei maggiori esponenti della musica elettronica britannica.

Un furgoncino giallo percorre i tornanti che salgono lungo i fianchi delle colline. E’ il minibus di John Jones, bibliotecario itinerante che ogni mese attraversa la regione di Trefeurig per consegnare e ritirare libri. Gli abitanti parlano con John non solo di letteratura, ma anche del tempo che passa e della vita della comunità. La regione sta cambiando rapidamente: l’agricoltura su piccola scala, praticata da sempre, sta scomparendo insieme alla generazione che ha conosciuto il mondo preindustriale. Rimangono un solido sentimento di appartenenza, un forte spirito di solidarietà e uno stretto legame con la terra. In questo angolo sperduto del paese la vita quotidiana è ancora scandita da abitudini, riti e tradizioni: il dialetto, la religione, i concorsi di animali, la tosatura delle pecore, le sagre, la corale, le lezioni di musica, i giardini, i cani…

Ultimo italiano e ultimo film del concorso “Cineasti del presente” è stato Bruno Oliviero con “Napoli Piazza Municipio”, ancora un documentario, anche questo particolare e originale, che indaga tra le pieghe, gli strati, del passato e del presente, e non soltanto della “piazza” ma dell’intera città di ieri e di oggi. Solo che Piazza Municipio diventa specchio e metafora di un’intera società. La Piazza del Municipio di Napoli, un luogo di passaggio, il “luogo del dominio” – come lo definisce Oliviero – perché così è stato fin dai tempi della dominazione francese (ne è la prova il castello degli Angioini).

Ancora un lungo viaggio – in poche centinaia di metri quadrati – che ci porta in diverse epoche storiche, in diversi paesi (tramite le lingue che se ne parlano), in diversi contesti sociali. Dal cantiere della metropolitana, dove è stato scoperto un porto e le carcasse di imbarcazioni del I secolo A.C., al teatro Mercadante (mentre va in scena “Napoli milionaria” e arriva un pubblico borghese), dal Bar Rosa (fra emarginati, immigrati e gay) al mercato dei fiori. Sbarcano turisti ma anche immigrati, e l’accoglienza è diversa; gli operai della metropolitana diventano archeologi; le donne protestano davanti al comune; qualcuno balla (il can can) sulla nave o suona per la strada… Napoli una e migliaia. Ieri, oggi e domani (come piaceva a Vittorio De Sica).

E, a proposito, domani è la serata della premiazione in piazza e della chiusura ufficiale con l’anteprima mondiale di “Back Soon” di Solveig Anspach (Islanda/Francia), una commedia che si annuncia “strampalata”.

José de Arcangelo

venerdì 15 agosto 2008

Locarno. L'Italia in concorso con "Mar Nero", storia d'immigrazione e amicizia

LOCARNO, 14 – Conto alla rovescia per il Festival del Film del Locarno che chiuderà i battenti sabato con la premiazione. Anche oggi al centro dell’interesse il cinema italiano, non solo per l’incontro di Nanni Moretti con il pubblico - nonostante la pioggia torrenziale che circondava la tenda dell'affollato Forum -, dove l’autore – amato-odiato anche qui – ha parlato ovviamente dell’Italia, di Berlusconi (“E’ inaccettabile che in una democrazia ci sia una persona che ha il monopolio delle tivù e si candidi cinque volte in tre lustri”), del centrosinistra (“è stato al governo cinque anni e non ha fatto una legge sul conflitto di interessi”), dei suoi film e del suo stile di lavoro, dell’attività di produttore, distributore ed esercente. Ma anche perché è stato presentato l’unico film italiano del concorso internazionale: “Mar nero” opera prima di Federico Bondi con una grande Ilaria Occhini e la giovane attrice rumena Dorothéea Petre.

Il delicato quadro di un’amicizia tra donne, di un rapporto che diventa pian piano quello tra madre-figlia sullo sfondo di una delle tante storie di emigrazione-immigrazione (forzata) come erano – senza dimenticarlo – quella di migliaia di italiani, dalla fine dell'Ottocento fino fino agli anni Sessanta (e oltre) del Novecento.

Se “tutto il mondo è paese” basterebbe solo capirci qualcosa e capirsi (a vicenda) perché il problema diventasse meno grave e contraddittorio, oppure meno ambiguo di come lo fanno diventare spesso i governi che mal lo affrontano. Quando decidono di farlo.

“Mar Nero è legato ad alcuni episodi della mia vita – dice il trentatreenne regista -: Gemma è mia nonna e Angela è stata la sua badante. E’ a loro che devo l’anima e i personaggi di questa storia. Nel film ci sono i loro caratteri, le loro emozioni e relazioni. Pur restando fedele a questi fatti personali, ho cercato di acquisire un certo distacco. Oggi mia nonna non c’è più, ma quasi quotidianamente, per la strada o ai giardini pubblici, incontro una persona anziana accompagnata da uno straniero: storie di coabitazione forzata, di dipendenza reciproca, ma anche di solidarietà e amicizia. Il viaggio che Gemma intraprende con la giovane rumena mia nonna non l’ha fatto, ma avrebbe potuto. Perciò mi piaceva immaginare questa storia”.

Certo, non tutti i casi sono uguali come nemmeno le persone sono uguali (“siamo uguali ma diversi” direbbe l’alter ego di Moretti). Quindi un dramma che, senza retorica né falso moralismo né paternalismo, narra l’incontro tra due donne di età, provenienza e mentalità diverse che – dopo l’iniziale, reciproca, diffidenza – pian piano si confessano, si aiutano, si affezionano l’una all’altra.

E, come accade sempre più spesso nel cinema contemporaneo, lo stile diventa quasi documentaristico quando le due donne vanno in Romania alla ricerca del marito di Dorothéea, il quale sembra scomparso nel nulla.

Nel concorso internazionale, presentato anche “Story of Jen” del francese François Rotger, il ritratto duro e crudo di due donne (madre e figlia), distrutte da una perdita improvvisa (marito e padre). Covina, piccolo villaggio canadese (il film è una coproduzione), la quattordicenne Jen vive con la madre Sarah, bellissima trentenne. Ma Jen non beve, non esce, non ha amici, non veste come le sue coetanee, non si trucca. La tragica perdita del padre (suicidatosi in casa) l’ha resa ancora più solitaria e conduce un’esistenza priva di emozioni, finché non si presenta Ian, fratellastro del defunto padre, che sconvolgerà tragicamente la vita delle donne e la sua stessa esistenza.

Un dramma contemporaneo che ha radici nel cinema della ‘nuova Hollywood’ anni Settanta e che mette a confronto i conflitti della famiglia con la brutalità del mondo esterno.

In concorso per “Cineasti del presente” è stato proiettato “La orilla que se abisma” (t.l. La riva che si abissa - nell’oceano -) dell’argentino Gustavo Fontàn. Non un documentario né una fiction ma un film che tenta di fondere arte e poesia. Quindi un film sperimentale che cerca “di dialogare con la poetica di Juan L. Ortiz”, come afferma il regista a proposito del poeta, della provincia di Entre Rios, che l’ha ispirato. Infatti le sue immagini passano dai colori vivacissimi della natura rigogliosa al bianco e nero sgranato, spesso sono (volutamente) fuori fuoco e nel gioco luce/colore/ombra sembrano dei dipinti ora astratti ora impressionisti (operatore Luis Càmara), oppure le tele di William Turner come si afferma nel catalogo. E tutto si confonde, il giorno e la notte, l’alba e il crepuscolo, il fiume e il cielo, come in uno specchio (distorto). E quando le immagini raggiungono il “fuoco”, la definizione, lo fanno lentamente come in una vera scoperta del meraviglioso. Quindi un non-documentario sperimentale – si direbbe d’arte – che non conquista tutti, anzi. Infatti, se i selezionatori lo considerano una chicca – e per chi ama la sperimentazione e il ‘nuovo’ lo è – non tutto il pubblico è (sarà) d’accordo, visto che qualcuno ha lasciato la sala in anticipo.

Ma è un modo per soffermarci su cose e ambiente che ci stanno accanto e che spesso non vediamo più, per riscoprire la contemplazione. “Forse la rivoluzione – scrive Ortiz - consiste in ciò che l’uomo ha rimandato a più tardi per secoli: la necessità di un vero riposo, che gli permetta di vedere come crescono, giorno dopo giorno, i fiorellini selvatici”.

José de Arcangelo

giovedì 14 agosto 2008

Locarno. E' la giornata di Nanni Moretti, ma anche di "Sognavo nuvole colorate"


LOCARNO, 13 – Ancora il cinema italiano protagonista della giornata festivaliera con l’arrivo a Locarno di Nanni Moretti a cui, in Piazza Grande, è stato assegnato un Pardo d’oro simbolico – ma vero – in occasione della retrospettiva completa a lui dedicata, sia come autore che come produttore, attore e distributore. E il Nanni, ormai, nazionale ha ringraziato portando non solo il breve filmato girato in occasione del festival di Cannes, ma anche una sorpresa, ormai svelata: una sorta di filmquiz, ovviamente, scritto, diretto e interpretato da lui. Un viaggio nel cinema dagli anni ’70 ai giorni nostri, condotto con il suo acido humour e la solita passione cinefila (ma non troppo). E domattina l’incontro, anzi “la conversazione con Nanni Moretti” al Forum. In seconda serata, sempre in Piazza, è stato presentato in copia ristampata per l’occasione “Palombella rossa” che, “nonostante abbia quasi vent’anni e sia nato qll’inizio della crisi della sinistra in Italia – ha detto l’autore –, credo sia sempre interessante (ri)vedere”. Anche perché la situazione è “peggiorata”.

Comunque stavolta siamo riusciti a vedere anche l’anteprima all’aperto – anche se dopo dieci minuti di film c’è stato un acquazzone durato per fortuna 5 minuti -, un “film per, su e con ragazzi” che si è rivelato gradevole e divertente anche per gli adulti: “Son of Rambow” (Il figlio di Rambo) di Garth Jennings, coprodotto da GB/Usa/Francia/Germania. In parte autobiografica, questa piccola grande commedia d’azione, narra di un ragazzino inglese folgorato dalla visione del “primo” (precisa il regista) “Rambo” che decide di girarne una sua versione con un compagno di scuola, serio e represso dalla comunità religiosa a cui appartiene la madre. Ma è anche la storia della nascita di una forte amicizia tra due ragazzi, trascurati e/o soffocati.

“Allora avevo dodici anni – sostiene il regista – e anch’io ne girai un filmetto su ‘quell’uomo che da solo e armato da un bastone e un coltello faceva fuori 200 uomini’, ma è stato uno schifo”.

Però, tornando alla giornata italiana, era già iniziata bene fin dal mattino con la presentazione del documentario “Sognavo le nuvole colorate” di Mario Balsamo con Edison Duraj ed Alessandro Santoro, veri protagonisti, presentato nella ricca e variegata sezione “Ici & Ailleurs”.

Una storia di emigrazione e immigrazione clandestina sempre attuale e toccante, connotata da una prospettiva inusuale. Il piccolo albanese Edison emigra in Italia a soli nove anni, da solo, nel solito viaggio della speranza, su di un gommone. Cerca, come quasi tutti, un’esistenza possibile, ma non si sente una vittima, piuttosto il protagonista di un’avventura, a caccia di nuvole colorate. Passato da un “centro” a un “istituto” e altro per quasi sette anni, Edison incontra Alessandro, un giovane regista leccese che fa lo fa entrare nel suo mondo, nel suo laboratorio. Gli costruisce intorno uno spettacolo teatrale, mette in gioco la sua identità. Nasce una forte amicizia e, forse, un mestiere per il giovane albanese, ormai sulla soglia della maggiore età (farà 18 a novembre) e, finalmente, può tornare in Albania con l’amico per riabbracciare la madre, le sorelle, il nonno proprio per le Feste di fine anno.

Il tutto narrato senza forzature né retorica né falso pietismo ma attraverso le vicende quotidiane di questo ragazzo maturato in fretta e per forza, “un bambino di 9 anni con la mentalità di uno di 28”, intercalate dalle autoriprese che Edison faceva nella sua stanza, con la telecamera donatagli dalla produzione. E ne viene fuori anche una certa ironia – “kusturicana” dice Balsamo – e delle vere emozioni.

“Spero che il film – dice lo stesso Edison, presente alla presentazione – aiuti a colorare le mie nuvole, perché volevo raccontare la mia storia che è quella di tutti. Ho trovato grandi ostacoli, ma la famiglia Santoro mi ha aiutato moltissimo. Non bisogna mai fermarsi” afferma, e poi cita Kafka: “Trattateci da cani e poi vi morderemo i polpacci, trattateci da uomini e poi diventeremo amici”.

“Questi centri di accoglienza – afferma Santoro - vengono usati come megaparcheggi, il governo può fare quello che vuole, ma è la gente che accoglie e aiuta gli immigrati clandestini. Non a caso Dario Fo ha proposto il Salento per il Nobel per la Pace. Era il 2001, io ero appena rientrato dalla grossa batosta di Genova, difficile da raccontare in teatro, ma avevo già il laboratorio teatrale nella scuola per ragazzi a rischio, un impegno umano. Edison non era nel laboratorio ma, visto che era un ragazzo irrequieto, l’assistente sociale lo aveva spinto a frequentarlo. Ma lui veniva a spiarci e così io mi presentai. Lui disse: ‘Mi chiamo Edison come l’inventore della lampadina’. E lo convinsi ad unirsi a noi dicendogli: ‘Se mi racconti la tua storia ti prometto di andare con te in Albania’. E così è stato”.

Quindi un altro film che merita il passaggio in sala e anche nelle scuole, e di non finire direttamente in dvd, anche se l’uscita è prevista più in là con un libro sulla storia di Edison, “bella e intensa - aggiunge Balsamo -, perché sarà difficile che venga acquistata dalla tivù italiana”.

Per il concorso internazionale sono stati presentati “The Market – A Tale of Trade” dell’inglese Ben Hopkins, ma ambientato fra Turchia e Kazakhstan, paesi coproduttori del film con Germania e GB; e “Um Amor de Perdiçao” (Amore di perdizione) di Mario Barroso, già attore e direttore della fotografia (anche per se stesso) per Manoel de Oliveira, anche lui autore di un famoso film dal romanzo di Camilo Castelo Branco; Joao César Monteiro e Raul Ruiz.

Il primo è un dramma di attualità sul commercio ('gli affari sono affari' viene detto spesso durante il film) su cui tutto ruota, mondo intero incluso; ma – come dicevamo – il finto-documentario è stato girato in Turchia con attori turchi e una troupe cosmopolita. Una riflessione sui toni della favola moderna - che non disdegna l’ironia né la poesia – sull’ambiguo rapporto tra commercio ed etica, tra denaro ed esistenza.

Mihram, commerciante indipendente e padre di famiglia, vive nella regione della Turchia orientale. Tra bevute, gioco d’azzardo, contrattazioni e raggiri, Mihram aspira a mettere in piedi un affare nel settore che tira di più oggi, la telefonia. Prende di mira un locale, ma non possiede i liquidi necessari per l’investimento. Però una dottoressa si rivolge a lui perché dietro pagamento, si rechi oltre confine per procurarle dei farmaci destinati ai bambini di un ospedale turco. Intravedendo un’ottima opportunità di guadagno e così realizzare il suo sogno, Mihram si arrischia a spendere i soldi per comprare della merce che potrà rivendere a buon prezzo in Kazakhstan. Ma non tutto andrà secondo programma…

Il regista portoghese invece traspone – con la complicità dello sceneggiatore Carlos Saboga - il romanzo di Castelo Branco nella Lisbona contemporanea, in questo modo il melodramma (romantico) di un amore impossibile diventa l’amour fou (post-romantico) e, quindi, autodistruttivo di due rampolli dell’alta società lusitana, sempre e comunque divisi tra eros e thanatos.

“In questo adattamento cinematografico – afferma Barroso – del romanzo ho voluto concentrarmi su ciò che mi sembra essere il vero motore della storia: l’ostinazione, il contrasto che porta l’eroe all’autodistruzione, e non l’amore proibito tra i due adolescenti. ‘Um amor de perdiçao’ è, sostanzialmente, Simao Botelho (il protagonista interpretato dal giovane Tomàs Alves, presente a Locarno ndr), l’adolescente che non conosce alcuna autorità né morale e che possiede una propria etica che lo condurrà all’annientamento, quale per lui fosse una fine inevitabile… Non è soltanto una storia di passione, ma anche una storia di violenza e di conflitto”.

Originale e divertente il documentario “Par Dzimteniti” (Three Men and a Fish Pond) di Laila Pakalnina, originaria di Latvia, uno dei tanti paesi dell’ex Russia sovietica. Presentato nella competizione “Cineasti del presente”, il film è originale perché evita ogni commento, oltre ai rumori di fondo (uccelli, rane e animali vari) e le rare battute dei ‘protagonisti’, divertente perché accomuna umani e animali nei diversi momenti del giorno (pulizia-bagno, pasti, riposo, canto, amore) e bellissimo perché cattura la natura e soprattutto gli uccelli di diverse specie nel modo più azzeccato.

Il tutto inseguendo tre guardiacaccia-pescatori in età avanzata che vivono in piccole e modeste case di legno in mezzo alla campagna nel cuore di una natura selvaggia eppure accogliente.

José de Arcangelo

mercoledì 13 agosto 2008

Locarno. I "Baci" irlandesi si candidano, con struggente freschezza, al Pardo d'oro internazionale



LOCARNO, 12 – Una grigia giornata di pioggia fin da stanotte ci ha costretti – anche per problemi di salute, a causa dell’aria condizionata – a ridurre le visioni anche oggi. Abbiamo approfittato della pausa pluviale di mezzogiorno per vedere i film, del concorso internazionale, del primo pomeriggio. Ha conquistato il pubblico (e anche noi), che gli ha donato il più lungo applauso, l’irlandese “Kisses” (Baci) di Lance Daly, una fresca commedia dolce-amara sull’adolescenza, anzi pre-adolescenza, oggi. Una sorta di viaggio iniziatico di una “piccola coppia” che tenta la fuga dall’inferno familiare per cercare la libertà a Dublino.

Dylan (Shane Curry) ha un padre disoccupato che si ubriaca e picchia lui e la madre. Kylie (la rivelazione Kelly O’Neill) è oppressa e tormentata, e poi scopriremo perché è costretta a subire in silenzio gli abusi dello zio. Dopo l’ennesimo litigio col padre, il ragazzo è costretto a scappare e Kylie, non solo l’aiuta, ma lo convince a fuggire insieme a Dublino, sulle tracce del fratello di lui, fuggito due anni prima. Incontrano un simpatico barcaiolo che li aiuta e li fa scoprire ed amare Bob Dylan; poi, una volta in città, vagano per le strade accoglienti e vitali spendendo i soldi che la ragazzina ha preso alla sorella maggiore. Infine cercano, in vano, di ritrovare il fratello di Dylan che tutti sembrano aver visto, però prima che cambiasse posto. Ma quando scende la notte, il sogno diventa incubo, la città diventa squallida e sordida, dove sembra si aggiri davvero “l’uomo nero”. Infatti, salvatisi miracolosamente, a vicenda, da maniaci assassini in cerca di prede, i due ragazzini si nascondono e si addormentano sui cartoni. Al mattino, col risveglio, scopriranno che una vita migliore non esiste – un barbone è morto accanto a loro durante la notte – nemmeno lontani da casa. Ritorneranno sui loro passi ma qualcosa in loro è, comunque, cambiata e, forse, la loro amicizia è diventato vero amore.

Una commedia, si direbbe sentimentale – ma nel vero e buon senso della parola –, che offre ora un tocco surreale (l’incontro vero con Bob Dylan, interpretato da Stephen Rea) ora un tocco dark (il sequestro di Kylie e l’inseguimento di Dylan), e vista dal punto di vista dei giovanissimi protagonisti. Infatti, il loro stato d’animo viene espresso con il bianco e nero, quando sono nel grigiore dell’universo familiare, con il colore, quando se ne liberano. Poi una serie di rimandi e/o citazioni (volute o inconsce), da Jean Vigo a Ken Loach, completano un’opera degna di attenzione.

Più ‘impegnativo’ e complesso, “Yuriev Den – Yuri’s Day” di Kirill Serebrennikov con la bravissima Ksenia Rappoport che già avevamo apprezzato in “La sconosciuta” di Giuseppe Tornatore, per cui ha vinto il David di Donatello. Infatti, essendo a Locarno, l’attrice si è rivolta al pubblico in Italiano e confessando che considerava la città svizzera un posto solare ma invece ha trovato la pioggia. “Ma, comunque, il tempo è molto meglio di quando abbiamo girato il film – ha detto – perché durante le riprese facevano 32 gradi sottozero”.

Il dramma racconta la storia di Lyuba, una cantante lirica bella e sofisticata, che si concede una breve vacanza per accompagnare il figlio Andrej a Yuriev, la città in cui è nata e che ha lasciato più di vent’anni prima. Il figlio ventenne, costretto a seguirla in giro per il mondo, le rimprovera di trascurarlo e di ignorare i suoi gusti e bisogni. Arrivati a Yuriev, entrambi scoprono un luogo ostile dove il tempo sembra essersi fermato e gli abitanti guardano gli stranieri con diffidenza, senza nemmeno rispondere alle loro domande. Prima di ripartire, madre e figlio decidono di visitare il campanile di una chiesa-museo, unico monumento degno di interesse. Una volta scesi, Lyuba si siede su una panca e si assopisce per qualche istante, ma al suo risveglio Andrej è scomparso. In preda alla disperazione, la donna lo chiama, lo cerca ovunque, fa riaprire il museo ma di lui nessuna traccia. Non rassegnata denuncia la scomparsa, ma prima di tre giorni non c’è niente da fare. La cassiera del museo, Nadia, la ospita in casa e Lyuba decide di fermarsi per proseguire le ricerche. Poi, finalmente, trova l’aiuto di un poliziotto che la porta in ogni posto dove il figlio potrebbe trovarsi, ma niente. E Lyuba, poco a poco si trasforma, (ri)diventa un’altra. Il suo carattere si inasprisce, smette di truccarsi, perde la voce e indossa abiti semplici. Alla fine decide di lavorare come inserviente all’ospedale del carcere, diventando una “madre” dei derelitti del suo popolo. Il tutto in due ore e ¼ di proiezione che, però, non si fanno sentire, per chi ama il dramma che si rifà ai classici del cinema e della letteratura, riportandoli nella società russa contemporanea.

“Da un lato – afferma il regista -, questo film racconta la storia di Lyuba, una donna di grande talento e bellezza e con un destino fuori dal comune. E’ una diva dell’opera, una professione molto impegnativa che non lascia spazio alla vita privata. Divorziata perché non ha potuto consacrarsi al marito, Lyuba trascorre pochissimo tempo con il figlio. Il viaggio a Yuriev la cambierà completamente. Dopo la scomparsa del figlio le sue priorità si rovesciano (…) Vediamo allora una madre disperata, con il cuore spezzato. Emerge un aspetto del suo carattere a lungo nascosto, un aspetto che in condizioni normali lei non avrebbe mai mostrato. E lo spettatore assiste a una trasformazione bergmaniana del personaggio. Una camera fissa cattura i protagonisti. Ma, dall’altro, ‘Yuriev den’ è anche la storia di un rapporto madre-figlio. E’ un film su una donna forte che trovandosi in una situazione inattesa cerca di infrangere le barriere dell’egoismo, un film sulla rinascita di una madre (…) E infine, la storia di una Russia che ha smarrito e poi ritrovato la propria identità”.

Quindi questi due film si candidano al Pardo nella competizione internazionale, anche perché gli altri - nonché degni - non raggiungono il loro livello.

Nella sezione “Ici & Ailleurs” abbiamo visto il documentario spagnolo, anzi catalano, “El Somni” (Il sogno) di Christopher Farnarier che ci fa percorrere un viaggio “a piedi” dietro un pastore di pecore, al suo ultimo giro. Infatti, i cambiamenti climatici, stradali ed economici non permettono più di continuare a lavorare come una volta. Il regista, durante le riprese, è vissuto a stretto contatto con il pastore alle soglie della pensione, condividendone il sapere e la visione del mondo che ci ripropone sullo schermo in modo “naturale” e delicato.

Da quando aveva dieci anni, Joan ogni primavera conduce il gregge di pecore dalle pianure spagnole dell’Empordà ai pascoli del Ripollés, in una transumanza che dura due settimane e che l’uomo ripete da più di sessant’anni. Seguendo il pastore, le sue pecore e il suo cane (che mangia omelette da tre uova), il documentario rievoca una tradizione millenaria ormai destinata a scomparire. Infatti, la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità minaccia i territori in cui passano le pecore, riducendoli sempre più; così come si è impoverito il pascolo sulle montagne, perché scende sempre meno acqua e l’erba non cresce quasi più. Quindi, un viaggio nel cuore della Catalogna rurale ma anche nella memoria di Joan, un uomo legato alla sua terra e alla natura, il cui sogno è vivere fra le montagne, magari con qualche donna di casa, ma continuando a dormire dove capita, non sul letto però.

José de Arcangelo

martedì 12 agosto 2008

Locarno. Storie di ordinaria borghesia (peruviana), e le suggestioni del Monte Sacro di Varallo

LOCARNO, 11 – L’America Latina è stata rappresentata oggi nel concorso internazionale dal Perù con “Dioses” (Dei) di Josué Méndez, ritratto di borghesia peruviana in grigio nonostante i vivaci colori dell’ambiente e della fotografia. Un dramma esistenziale che descrive le squallide giornate delle “signore” dell’alta borghesia della capitale, Lima, tra riunioni, feste e mostre floreali di beneficenza; e dei giovani rampolli tra discoteca, alcol e sesso (incosciente). Un dramma che negli anni ’70 sarebbe stato liquidato con un “chi se ne frega dei problemi esistenziali della borghesia mentre la maggioranza del popolo, dei lavoratori, sopravvive nella miseria”.

Certo, qualche accenno alla situazione generale qui c’è, ma non è altro che un accenno, perché la storia è incentrata, da una parte, sull’adolescente Diego, segretamente innamorato della sorella Andréa, e sull’incomprensione del padre industriale verso entrambi. Infatti, al giovane che deve cominciare l’università il genitore impone di studiare amministrazione d’impresa, così poi potrà prendere il suo posto in fabbrica. Tormentato e deluso, il giovane trova conforto e comprensione soltanto nella domestica. Dall’altra parte, c’è Elisa, la nuova compagna del genitore, più giovane di vent’anni e bellissima, che però nasconde ad ogni costo le sue origini indiane. Tanto che quando la madre e la nonna le si presentano in casa, davanti al futuro marito le fa “passare” per domestiche.

Méndez però dichiara: “E’ un’esplorazione della vita quotidiana della classe dominante peruviana, una fetta della società che ha scelto di prendere le distanze, sia geografiche che intellettuali, dai problemi sociali ed economici del resto del paese. Una classe che si ritrova volutamente ai margini, isolata dalle altre, che si è costruita un ‘paese’ a parte dentro i nostri confini, dove crescere i propri rampolli in completa sicurezza e nel mantenimento di una struttura che le consente di esistere. Sinceramente penso sia urgente che questo fenomeno venga messo in evidenza, che sia importante mostrare la miseria morale, e non solo economica, che affligge la nostra società: importante dire che questa miseria non connota unicamente le classi povere, ma è un problema che ci accomuna tutti, impedendoci di evolvere verso una società più accogliente, tollerante e sincera”.

Ma sinceramente e, purtroppo, crediamo che il film sarà visto soltanto da chi la situazione già la conosce, o addirittura da chi la fomenta, anche perché il film non ha la forza né il coraggio di portarla all’esasperazione come accadeva nel messicano “La Zona” di Rodrigo Plà, dove alla fine il “giovane” borghese lasciava quel “mondo” per cercarne un altro, quello vero. Qui invece, Diego – dopo aver passato una notte nell’umile casetta dell’amorevole domestica -, ritorna nella lussuosa villa e, alla fine, sembra aver ottenuto un “compromesso”, visto che lo rivediamo quando ormai studia lettere e filosofia. Certo, l’opera seconda di Josué Méndez è ben costruita e non priva di fascino, però ammicca troppo a quel che vorrebbe condannare.

Altro bel film italiano per “Ici & Ailleurs”, il non-documentario d’arte di Elisabetta Sgarbi “Non chiederci la parola”, titolo presso in prestito da Montale. Infatti, la regista l’ha scelto insieme al fratello Vittorio – anche lui presente a Locarno - che ne ha scritto e curato anche i testi che sostituiscono il tradizionale commento (da Giovanni Testori a Umberto Eco), letti, anzi sussurrati dalla voce di Toni Servillo.

Un suggestivo e lirico viaggio alla scoperta del tesoro nascosto del Sacro Monte di Varallo, edificato alla fine del XV secolo sul più antico di tutti i monti sacri d’Italia (a metà strada tra Milano e Torino).

Lavoro non facile per la regista anche perché le sculture in terracotta si trovano dietro le gratte, e la “burocrazia” non ha permesso di smontarle. Anzi, le riprese erano state addirittura ostacolate da burocrati e funzionari che Sgarbi, ovviamente Vittorio, definisce “stupidi”, tranne il Sindaco che ha appoggiato il progetto fin dall’inizio. Quindi quel che vediamo è stato ripreso con un “braccio” meccanico che sorreggeva la telecamera digitale oltre la gratta, ma senza potere andare né troppo su né troppo giù. L’autrice – che comunque comparte “una regia collettiva” con i suoi collaboratori – esplora solo alcune delle cappelle (ce ne sono 45), interamente decorate di capolavori (realistici) realizzati da Gaudenzio Ferrari all’inizio del XVI secolo, e completate dagli artisti Morazzone, Tanzio e Rocca Gherardini. Opere anche impressionanti perché di grandezza naturale, che rievocano gli episodi salienti della vita di Gesù, dall’Annunciazione alla Crocifissione. Avvicinandosi pian piano e svelandole poco a poco, la regista ci fa quasi accarezzare le statue, osservarle nei dettagli, vederle insomma come mai nessun visitatore è riuscito a fare. Tra luce e ombra, questi personaggi destinati a raccontare la storia di Cristo al popolo, hanno sicuramente le sembianze, i volti e gli atteggiamenti degli abitanti della zona, divisi tra Bene e Male, tra Bianco e Nero. Madonne e carnefici, santi e assassini. Efficaci le musiche di Franco Battiato e Frank B. Right che fondono sacro e profano, suoni e rumori. Ora non ci resta che andarli a vedere da vicino, anche se non sarà possibile andare oltre quello che ci mostra l’autrice, anzi, ma comunque il film ci invita a farlo.

L’Arte, anzi un artista è anche al centro del documentario “Bill – Das Absolute Augenmass” di Erich Schmidt, ovvero Max Bill, presentato dalla Settimana della Critica. Una personalità di rilievo nella Svizzera del XX secolo, ma comunque sottovalutata, ‘sorvegliata’ (“nessuno è profeta in patria”?). Nato a Winterthur nel 1908 e morto nel 1994, il giovane Max vive l’esperienza della Bauhaus – prima che venga cancellata dal nazismo – e poi, sulla sua scia, fonda quella della Ulm, nel dopoguerra. Il documentario, realizzato dal marito della vedova di Bill, Angela Thomas, ci porta a scoprire una biografia sconosciuta ai più e soprattutto in patria, attraverso documenti (il regista ha visionato 185 ore di documentazione) e testimonianze di colleghi e allievi. Ne viene fuori il ritratto di un uomo straordinario sia come artista poliedrico che come persona, intellettuale impegnato (dalla guerra civile spagnola e il nazismo, all’Africa negli anni ’80). Un ritratto che tenta di risalire al “colpo d’occhio assoluto” e di rendere intelligibile la tesi di Bill della bellezza nella riduzione.

Abbiamo dovuto rinunciare anche stavolta alla Piazza perché, stavolta il tempo, non è stato clemente. Le proiezioni vengono comunque spostate al chiuso però i tempi si allungano e lo spazio si stringe. Peccato perché c’era l’opera prima di Alessandro Baricco “Lezione 21”, anche se sembra che non abbia convinto del tutto.

José de Arcangelo

lunedì 11 agosto 2008

Anche i ragazzini salvati dal calcio conquistano il pubblico di Locarno

LOCARNO, 10 – Dopo “Il sol dell’avvenire”, un altro documentario italiano conquista il pubblico del Festival del Film che gli ha regalato un più lungo applauso. Non solo perché si tratta di “Petites Historias das Crianças” di Fabio Scamoni (anche produttore per RedHouse), Guido Lazzaroni e Gabriele Salvatores – sempre nell’ambito della sezione “Ici & Ailleurs” - che parla del calcio come progetto (InterCampus) per favorire lo sviluppo di bambini vittime della guerra e/o della povertà. Ma anche perché lo fa attraverso gli stessi bambini che raccontano e si raccontano con spontaneità disarmante, spesso commovente. Però anche i loro allenatori/educatori illustrano non solo la situazione sociale, ma anche come un’attività sportiva, un “gioco”, li possa aiutare non soltanto a crescere sanamente ma anche a superare traumi e disagi.

Il progetto dell’Inter è nato nel 1997 su un programma flessibile di intervento sociale e cooperazione in 17 nazioni nel mondo (dall’Iran al Brasile, dalla Romania alla Cina, dalla Bosnia al Cameroun e alla Colombia) utilizzando il gioco del calcio come strumento di promozione a beneficio di 9mila bambini bisognosi tra gli 8 e i 14 anni, sotto la guida di 200 operatori locali.

Alla proiezione in anteprima internazionale erano presenti, oltre i tre registi, anche il presidente di InterCampus Massimo Moretti, il presidente dell’Inter Massimo Moratti e il calciatore rumeno Christian Chievu.

“Se non hai i colori della squadra del cuore – esordisce scherzosamente Fabio Scamoni – non riesce a far un lavoro come questo. In Cameroun abbiamo dovuto fare dei chilometri nella foresta facendoci strada con i machete per arrivare poi a un grande spiazzo, dove c’erano cento bambini con la maglia dell’Inter”.

“Il progetto del film è nato più di un anno fa – dichiara Lazzaroni -, anzi quindici mesi fa, le riprese sono cominciate l’anno scorso e negli ultimi cinque mesi abbiamo lavorato al montaggio. Abbiamo sempre lavorato bene e d’accordo grazie all’aiuto degli allenatori e dei coordinatori del posto, soprattutto in Brasile e Colombia, dove ci sono gravi problemi di sicurezza”.

“La differenza tra fare un film sui bambini – afferma Salvatores – e questo lavoro sta nel fatto che qui si affronta il tema del cambiamento, della possibilità per i ragazzi di cambiare, cosa che una volta cresciuti diventa sempre più difficile. E poi qui ci troviamo con bambini di paesi diversi, che pregano in maniera diversa, ma possiamo – e possono – sentirci molto simili attraverso il calcio. Questi ragazzi indossano la maglietta come fosse l’abito buono, perché dà loro un senso di appartenenza a qualcosa, anche perché la vita è un 'gioco' collettivo che si fa con gli altri”.

Ora il film è pronto, non ci sono tutte le storie – è ovvio – ma quelle più rappresentative e illuminanti, ottimamente fotografate da Giuseppe Baresi e montate (in parallelo) da Giorgio Garini. Però per il momento non si vedrà in sala ed è un peccato, ma quasi sicuramente nelle scuole – e sarebbe un’ottima iniziativa se andasse in porto – e senz’altro in Dvd. E in questo caso la tifoseria (visto che si tratta di un’iniziativa dell’Inter) va lasciata da parte, perché il vero tema del documentario è un altro, il calcio sì ma come potenza del gioco che unisce anziché dividere. Quindi il gioco non la guerra e la miseria.

Per i concorsi abbiamo invece visto “33 Sceny Z Zycia” (33 Scene di vita) della polacca Malgoska Szumowska e “Daytime Drinking” del coreano Noh Young-seok (International Competition), e “Filmefobia” del brasiliano Kiko Goifman (Cineasti del Presente).

Il primo è un melodramma familiare freddo al punto giusto - tanto da evitare di cadere nel sentimental-lacrimoso - che diventa quadro del passaggio dall’infanzia all’età adulta, attraverso le vicende della giovane Julia, fotografa dalla promettente carriera che vive felice accanto alla sorella, ai genitori famosi – il padre è regista, la madre scrittrice -, e all’adorato marito, compositore. In famiglia regnano l’amore e il rispetto reciproco, ma il tempo passa in fretta e, quando la madre scopre di avere un cancro, l’armonia viene messa a dura prova. E la vita continua, segnata da lutti, inquietudini e dubbi.

“Daytime Drinking” è un’inedita – ma non la sola – commedia sud-coreana on the road realizzata interamente e con pochi mezzi da Noh Young-seok che firma, oltre la regia, la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio, le scenografie, i costumi e le musiche. Tutto tranne che la recitazione.

Una pellicola gustosa e divertente – premiata in patria come miglior film coreano al Festival Jeonju 2008 – il cui pregio sono proprio la freschezza del tocco e la gradevolezza della narrazione per offrirci un spaccato del disagio dei giovani della middle class, tra disoccupazione e ricerca di emozioni nuove.

Hyuk-jin, giovane introverso e dal cuore spezzato, durante una classica sbronza viene convinto dall’amico Gisang a prendere il largo e raggiungere la pensione del fratello, in un posto poco lontano dal mare. Solo che l’indomani Hyuk-jin si ritrova solo – gli amici gli hanno dato buca – in un luogo che non conosce e, per una serie di (assurdi) equivoci, finirà in un’altra pensione e verrà bidonato da una coppia di coetanei. Non un capolavoro ma una commedia fatta con passione ed entusiasmo.

Il brasiliano “Filmefobia” gioca invece sull’ambiguità del rapporto realtà-finzione portandolo all’esasperazione. Narra la storia di Jean-Claude (Bernardet, vero cineasta e intellettuale molto conosciuto in Brasile), un regista settantunenne che sta girando un documentario in cui persone affette da particolari fobie si trovano ad affrontare situazione ansiogene. Per lui, infatti, la sola immagine veramente autentica è quella di un essere umano alle prese con le angosce più profonde. E vuole capire e riflettere sul perché questi uomini e donne hanno accettato di partecipare al film e, quindi, di affrontare le loro fobie, cioè situazioni di panico quasi incontrollabile, al limite della sopportazione.

Tra riflessione profonda e distaccata delle paure nella società contemporanea e cine-verità, “Filmefobia” è in bilico tra repulsione ed attrazione, proprio come le persone che si offrono come cavie al regista e al pubblico. Non è un caso se tra gli ‘esperti’ chiamati a esprimere la loro opinione c’è il bizzarro regista horror José Mojica Martins. E poi lo stesso Jean-Claude afferma spesso che “l’immagine è la verità”, ma quale? Quella che vediamo o quella che “interpretiamo”, dato che tutto si confonde e, a volte, soltanto un’idea di verità può farci paura. E qui ci sono diverse (verità nascoste) perché si tratta del documentario (making off) su un documentario (vero). Oppure finto? Sta a voi deciderlo.

Purtroppo nella fretta e, fra una corsa e l’altra, c’eravamo scordati l’altro italiano della giornata, non che fosse meno importante ma l'avevamo visto la mattina e non si tratta stavolta di un documentario, ma di fiction. Ma una fiction particolare perché “Beket” di Davide Manuli (in concorso per “Cineasti del presente”) è un’opera davvero diversa, originale, particolare, che prende spunto da Beckett (e lo porta in Sardegna) per “sperimentare” con il linguaggio cinematografico, come si faceva spesso in Italia oltre trent’anni fa. La sua “commedia surreale”, infatti, sta a metà strada tra lo sperimentale e l’underground anni ’60-’70. Non solo “nouvelle vague”, anche se il il bianco e nero, e il giocare con le battute, l’ironia e i generi (il western) ricorda (ancora) l’ex rivoluzionario Godard. Certo, stile e linguaggio sono personalissimi e il tutto è visto col filtro della nostra società contemporanea. Però, per i due simpatici e bizzarri protagonisti, Godot non arriverà nemmeno stavolta.

La storia è senza tempo: sul ciglio di una strada sperduta in un paesaggio desertico, Jajà (Jerome Duranteau) e Freak (Luciano Curreli) s’incontrano a un’improbabile fermata d’autobus, fanno conoscenza e scoprono che entrambi vanno da Godot. Ma la corriera non si ferma, anzi vola, e i due si incamminano verso la méta. Incontreranno bizzarri personaggi, quali il mariachi (Freakantoni, ex cantanti degli Skiantos e autore delle musiche), l’agente speciale 06 (un irriconoscibile e gustosissimo Fabrizio Gifuni) – comunica con l’agente 08 (Paolo Rossi), Adamo ed Eva (Simona Caramelli), fino alla musa (Letizia Filippi della “Domenica Sportiva”) sulla spiaggia in Costa “Paradiso”.

José de Arcangelo