venerdì 5 settembre 2008

Venezia 65. Kathryn Bigelow e Pappi Corsicato sempre coerenti col loro originale stile

VENEZIA, 4 - Dopo più di sei anni di assenza, due autori ritornano dietro la macchina da presa e alla Mostra d’Arte Cinematografica: l’americana Kathryn Bigelow e l’italiano Pappi Corsicato. Due stili diversi e personalissimi, ma entrambi visionari e ancora coerenti con loro stessi.

“The Hurt Locker” della Bigelow è basato su quanto ha visto in prima persona il giornalista e sceneggiatore Mark Boal – che già aveva firmato “Nella valle di Elah”, al Lido l’anno scorso – che per un periodo è stato inviato di guerra al seguito di un reparto speciale di artificieri. E prende spunto dall’affermazione “la guerra è una droga”, risposta alla domanda “Se la guerra è l’inferno, perché tanti uomini scelgono di combattere?”, anche ora che non sono più obbligati perché il servizio militare è volontario.

Un film sull’Iraq, non solo. E’ un’amara riflessione attraverso le vicende di una élite di soldati che svolgono uno dei mestiere più pericolosi al mondo: disinnescare le armi, cioè le bombe, nel mezzo del combattimento. Una storia che si ripete ad ogni guerra e continua nel dopoguerra, e a questo proposito ci ha riportato in mente il sorprendente film di Robert Aldrich “10 secondi con il diavolo” che narrava, appunto, di questi ex soldati che nel secondo dopoguerra continuavano a cercare e a disinnescare le bombe inesplose, sfidando la morte senza sosta. E, prima o poi, finivano vittime della loro stessa “droga”, perché per loro non esisteva niente di più importante nelle loro esistenze.

Anche il sergente James (bravissimo Jeremy Renner), protagonista del film della Bigelow, finita la missione, tornerà in Iraq per un altro anno, per sfidare ancora una volta la morte, ed avere la sua “dose” di adrenalina. Infatti, James si comporta come se la morte gli fosse indifferente. Mentre gli uomini della squadra lottano nel tentativo di domarlo, nella città esplode il caos e la vera personalità di James si rivelerà in un modo che trasformerà per sempre la vita dei suoi colleghi.

Ma se la Bigelow continua a sorprendere ancora qualcuno – definiscono i suoi “argomenti da macho” – con film d’azione duri e crudi, il suo sguardo ha sempre e comunque qualcosa in più, quella sensibilità femminile che osserva soprattutto la vita e la morte come sua (inevitabile) fine. Indaga sui volti delle vittime e dei carnefici di ogni schiera, fotografa persino la sofferenza e l’agonia provocata dal conflitto sugli animali (vedi il gatto zoppo che attraversa la strada, e l’altro, magrissimo, che avanza verso l’obiettivo miagolando affamato). Particolari che, forse, altri avrebbero tagliato. Anche i bambini hanno in questo caso un ruolo importante perché anche loro vengono usati (come carne da macello, persino come kamikaze) perché si guadagnino la fiducia dei soldati americani e così farli cadere in trappola. L’opera dell’autrice di “Strange Days” coinvolge il pubblico, con la giusta dose di suspense e tensione, commuove e ci tiene col fiato sospeso per due ore abbondanti. Quindi la regista non ha deluso le aspettative, anzi.

“La paura ha una cattiva reputazione – dice -, ma credo a torto. La paura aiuta a capire. Ti costringe a dare la precedenza alle cose importanti e a non tener conto di quelle insignificanti. Quando il giornalista Mark Boal ritornò da un reportage in Iraq, mi raccontò di soldati che disinnescano bombe nel fervore del combattimento, un lavoro chiaramente elitario, con un alto tasso di mortalità. Rimasi scioccata quando mi disse che questi uomini sono estremamente vulnerabili e hanno solo un paio di pinze per disinnescare una bomba che può uccidere fino a un raggio di 300 metri. Quando venni a sapere che questi uomini sono dei volontari e spesso sono così fieri del loro lavoro tanto da pensare di non poter fare altro, mi resi conto che avevo trovato il soggetto del mio film”.

Con Pappi Corsicato e il suo “Il seme della discordia” siamo, invece, dalla parte della commedia all’italiana, tra surrealismo napoletano e pop art, tra musica e colori vivacissimi, tra graffiante ironia e satira spietata. Tutto fa parte del suo inconfondibile e fantasioso stile. La trama (pretesto?) è presto detta: la bellissima Veronica è una giovane donna, proprietaria di un negozio e sposata con un rappresentante di fertilizzanti. La madre la tormenta perché sposata da cinque anni non ha avuto ancora un figlio. Ma un giorno, Veronica scopre di essere incinta, peccato che il marito – a cui è stata sempre fedele – scopra di essere sterile… Una gustosa commedia degli equivoci che – come di consueto – conquista con un’accurata ricerca delle immagini e delle inquadrature, sempre originali e suggestive, dove si intravede l’interesse/passione del regista per l’arte e in particolare per la pittura, di ieri e di oggi. Non mancano le citazioni, da se stesso (“Libera”) a Truffaut (le gambe femminili nei titoli di testa, come in “L’uomo che amava le donne”). Protagonista è la star in ascesa Caterina Murino, già Bond Girl, assecondata da Alessandro Gassman, Martina Stella, Isabella Ferrari, Valeria Fabrizi, Michele Venitucci e la partecipazione di Monica Guerritore (vista anche nel film di Ozpetek) e della sua attrice feticcio Iaia Forte.

Però ieri erano stati presentati altri due film in concorso che noi abbiamo visto il giorno dopo (cioè anch’essi oggi). “Rachel Getting Married” di Jonathan Demme e “Gabbla – Entroterra” di Tariq Teglia. Il primo è un melodramma familiare classico, anche se aggiornato alla realtà contemporanea e scritto dalla figlia di Sidney Lumet, Jenny. Cambiano gli ambienti e gli stili – matrimonio multietnico, in costume indù e con musiche da tutto il mondo, incluse le pseudo Oba Oba brasiliane - ma la sostanza è sempre quella. Tanto che ricorda altri film corali come “Un matrimonio” di Robert Altman o “Dopo il matrimonio” di Susanne Bier, per citarne un paio. Certo, Demme ha detto di aver tentato di girarlo come fosse un documentario – due dei suoi ultimi film lo erano, “The Agronomist” e “The Man from Plains” su Jimmy Carter -, e si vede, anzi sembra il making off di un filmino di matrimonio, ovviamente di ottima fattura. Non mancano le emozioni fino alle lacrime né la catarsi finale, perché le ‘rimpatriate’ in queste occasioni non solo fanno scoprire gli scheletri nell’armadio, ma scoperchiare le casse che tengono nascosti segreti e fantasmi, rancori e gelosie.

Kym (l’ex “Pretty Princess” Anne Hathaway, brava al suo primo ruolo tormentato), reduce di un istituto di disintossicazione e rieducazione, ritorna a casa per il matrimonio della sorella Rachel (Rosemarie Dewitt). Il padre superprotettivo con la prima scatena la gelosia della seconda, ma poi – ovviamente – arriva anche la madre (la rediviva Debra Winger) divorziata da anni…

“Entroterra” è un dramma autoriale, interessante e suggestivo visivamente, ma troppo lungo (2 ore e 20’), e per certi versi enigmatico. Infatti, alla storia vengono intercalate a modo di flash back frammenti di una discussione politica sulla realtà algerina, da parte di alcuni intellettuali progressisti. La storia è quella di un topografo, che conduce una vita quasi da recluso, e viene convinto dall’amico Lakhdar a lavorare in una regione dell’Algeria occidentale a un progetto abbandonato anni prima. Trova solo alcuni contadini, prima fuggiti dal territorio islamico, ed oggi tornati; qualche aiutante e la polizia che fa dei controlli severi, ma piuttosto burocratici. La sua esistenza verrà sconvolta dall’arrivo di una profuga africana…

Conclusa la Settimana della Critica con la presentazione dell’evento speciale “Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate”. Un documentario su uno strano e simpatico personaggio, quello del titolo, che ha sempre sognato di fare il guardiano del cimitero nella sua Puglia, a Bitonto. A 41 anni ci è riuscito, ma in un paesino dove per cinque mesi non è morto nessuno. La sua storia viene raccontata attraverso un azzeccato montaggio che li dà il tono da commedia all’italiana piena zeppa di humour nero ma solare e – nonostante sia ambientata soprattutto al cimitero – divertentissima. Ma nella sezione erano già passati il cinese “Huanggua – Cetriolo” di Zhou Yaowu, una docu-fiction – sui toni della commedia dolce-amara dagli spunti surreali - girata interamente in un quartiere di Pechino che segue vari personaggi, in lunghi piano sequenza e ci fa scoprire come anche lì regnino racket, corruzione e delinquenza giovanile.

Anche il francese “L’aprenti – L’apprendista” di Samuel Collardey è una sorta di docu-fiction su un adolescente che ha deciso, nonostante il parere della madre, di diventare perito agrario e che il suo apprendistato in una fattoria vecchio stile, cioè a gestione familiare. Anche qui i problemi psicologici e quelli pratici del lavoro si intrecciano e si confondono con sottile ironia.

Per le Giornate degli autori abbiamo visto l’argentino “Una semana solos – Una settimana da soli” di Celina Murgia, variazione sul tema di “La zona”, ambientato appunto in un condominio-quartiere residenziale esclusivo e supercontrollato. Un gruppo di adolescenti (fratelli, sorelle e cugini) vengono lasciati soli, sotto la vigilanza della domestica e delle guardie che fanno la ronda diurna e notturna senza lasciare entrare né uscire nessuno. Ma questi ragazzi, viziati e capricciosi hanno tutto, ma in realtà vivono nella solita “prigione dorata”, tanto che nonostante siano nei dintorni non vanno quasi mai nella capitale, Buenos Aires, e vengono portati e riportati da scuola da autisti-guardie del corpo. Naturale che finiscano per sfogare la loro insoddisfazione sullo estraneo appena arrivato, il coetaneo fratello della domestica e con un atto di gratuito vandalismo. Però per loro non cambierà nulla, o quasi, perché saranno i genitori a pagare i danni, probabilmente passati come “spese condominiali”. Un discreto dramma che evita la tragedia, e raccontato con tocco discreto. Ad "Orizzonti" è toccato al cinese “Women” (non donne perché non è inglese, ma “Noi”) di Huang Wenhai è un documentario che per la prima volta passa la parola a “l’altra Cina”, dando voce alla coscienza civile dei molti che lottano per un paese migliore. Anche ex membri del governo e del partito che affermano “Quando sono in gioco questioni di Stato non possiamo restare a guardare”. Certo, il film può annoiare o addirittura non interessare chi non voglia sapere niente sulla Nuova Cina, ma risulta molto illuminante per chi vuol sapere e non segue tre generazioni di attivisti – giovani, di mezza età ed anziani – sui siti internet (ancora aperti).

José de Arcangelo