martedì 12 agosto 2008

Locarno. Storie di ordinaria borghesia (peruviana), e le suggestioni del Monte Sacro di Varallo

LOCARNO, 11 – L’America Latina è stata rappresentata oggi nel concorso internazionale dal Perù con “Dioses” (Dei) di Josué Méndez, ritratto di borghesia peruviana in grigio nonostante i vivaci colori dell’ambiente e della fotografia. Un dramma esistenziale che descrive le squallide giornate delle “signore” dell’alta borghesia della capitale, Lima, tra riunioni, feste e mostre floreali di beneficenza; e dei giovani rampolli tra discoteca, alcol e sesso (incosciente). Un dramma che negli anni ’70 sarebbe stato liquidato con un “chi se ne frega dei problemi esistenziali della borghesia mentre la maggioranza del popolo, dei lavoratori, sopravvive nella miseria”.

Certo, qualche accenno alla situazione generale qui c’è, ma non è altro che un accenno, perché la storia è incentrata, da una parte, sull’adolescente Diego, segretamente innamorato della sorella Andréa, e sull’incomprensione del padre industriale verso entrambi. Infatti, al giovane che deve cominciare l’università il genitore impone di studiare amministrazione d’impresa, così poi potrà prendere il suo posto in fabbrica. Tormentato e deluso, il giovane trova conforto e comprensione soltanto nella domestica. Dall’altra parte, c’è Elisa, la nuova compagna del genitore, più giovane di vent’anni e bellissima, che però nasconde ad ogni costo le sue origini indiane. Tanto che quando la madre e la nonna le si presentano in casa, davanti al futuro marito le fa “passare” per domestiche.

Méndez però dichiara: “E’ un’esplorazione della vita quotidiana della classe dominante peruviana, una fetta della società che ha scelto di prendere le distanze, sia geografiche che intellettuali, dai problemi sociali ed economici del resto del paese. Una classe che si ritrova volutamente ai margini, isolata dalle altre, che si è costruita un ‘paese’ a parte dentro i nostri confini, dove crescere i propri rampolli in completa sicurezza e nel mantenimento di una struttura che le consente di esistere. Sinceramente penso sia urgente che questo fenomeno venga messo in evidenza, che sia importante mostrare la miseria morale, e non solo economica, che affligge la nostra società: importante dire che questa miseria non connota unicamente le classi povere, ma è un problema che ci accomuna tutti, impedendoci di evolvere verso una società più accogliente, tollerante e sincera”.

Ma sinceramente e, purtroppo, crediamo che il film sarà visto soltanto da chi la situazione già la conosce, o addirittura da chi la fomenta, anche perché il film non ha la forza né il coraggio di portarla all’esasperazione come accadeva nel messicano “La Zona” di Rodrigo Plà, dove alla fine il “giovane” borghese lasciava quel “mondo” per cercarne un altro, quello vero. Qui invece, Diego – dopo aver passato una notte nell’umile casetta dell’amorevole domestica -, ritorna nella lussuosa villa e, alla fine, sembra aver ottenuto un “compromesso”, visto che lo rivediamo quando ormai studia lettere e filosofia. Certo, l’opera seconda di Josué Méndez è ben costruita e non priva di fascino, però ammicca troppo a quel che vorrebbe condannare.

Altro bel film italiano per “Ici & Ailleurs”, il non-documentario d’arte di Elisabetta Sgarbi “Non chiederci la parola”, titolo presso in prestito da Montale. Infatti, la regista l’ha scelto insieme al fratello Vittorio – anche lui presente a Locarno - che ne ha scritto e curato anche i testi che sostituiscono il tradizionale commento (da Giovanni Testori a Umberto Eco), letti, anzi sussurrati dalla voce di Toni Servillo.

Un suggestivo e lirico viaggio alla scoperta del tesoro nascosto del Sacro Monte di Varallo, edificato alla fine del XV secolo sul più antico di tutti i monti sacri d’Italia (a metà strada tra Milano e Torino).

Lavoro non facile per la regista anche perché le sculture in terracotta si trovano dietro le gratte, e la “burocrazia” non ha permesso di smontarle. Anzi, le riprese erano state addirittura ostacolate da burocrati e funzionari che Sgarbi, ovviamente Vittorio, definisce “stupidi”, tranne il Sindaco che ha appoggiato il progetto fin dall’inizio. Quindi quel che vediamo è stato ripreso con un “braccio” meccanico che sorreggeva la telecamera digitale oltre la gratta, ma senza potere andare né troppo su né troppo giù. L’autrice – che comunque comparte “una regia collettiva” con i suoi collaboratori – esplora solo alcune delle cappelle (ce ne sono 45), interamente decorate di capolavori (realistici) realizzati da Gaudenzio Ferrari all’inizio del XVI secolo, e completate dagli artisti Morazzone, Tanzio e Rocca Gherardini. Opere anche impressionanti perché di grandezza naturale, che rievocano gli episodi salienti della vita di Gesù, dall’Annunciazione alla Crocifissione. Avvicinandosi pian piano e svelandole poco a poco, la regista ci fa quasi accarezzare le statue, osservarle nei dettagli, vederle insomma come mai nessun visitatore è riuscito a fare. Tra luce e ombra, questi personaggi destinati a raccontare la storia di Cristo al popolo, hanno sicuramente le sembianze, i volti e gli atteggiamenti degli abitanti della zona, divisi tra Bene e Male, tra Bianco e Nero. Madonne e carnefici, santi e assassini. Efficaci le musiche di Franco Battiato e Frank B. Right che fondono sacro e profano, suoni e rumori. Ora non ci resta che andarli a vedere da vicino, anche se non sarà possibile andare oltre quello che ci mostra l’autrice, anzi, ma comunque il film ci invita a farlo.

L’Arte, anzi un artista è anche al centro del documentario “Bill – Das Absolute Augenmass” di Erich Schmidt, ovvero Max Bill, presentato dalla Settimana della Critica. Una personalità di rilievo nella Svizzera del XX secolo, ma comunque sottovalutata, ‘sorvegliata’ (“nessuno è profeta in patria”?). Nato a Winterthur nel 1908 e morto nel 1994, il giovane Max vive l’esperienza della Bauhaus – prima che venga cancellata dal nazismo – e poi, sulla sua scia, fonda quella della Ulm, nel dopoguerra. Il documentario, realizzato dal marito della vedova di Bill, Angela Thomas, ci porta a scoprire una biografia sconosciuta ai più e soprattutto in patria, attraverso documenti (il regista ha visionato 185 ore di documentazione) e testimonianze di colleghi e allievi. Ne viene fuori il ritratto di un uomo straordinario sia come artista poliedrico che come persona, intellettuale impegnato (dalla guerra civile spagnola e il nazismo, all’Africa negli anni ’80). Un ritratto che tenta di risalire al “colpo d’occhio assoluto” e di rendere intelligibile la tesi di Bill della bellezza nella riduzione.

Abbiamo dovuto rinunciare anche stavolta alla Piazza perché, stavolta il tempo, non è stato clemente. Le proiezioni vengono comunque spostate al chiuso però i tempi si allungano e lo spazio si stringe. Peccato perché c’era l’opera prima di Alessandro Baricco “Lezione 21”, anche se sembra che non abbia convinto del tutto.

José de Arcangelo