venerdì 29 giugno 2007

Festival di Pesaro: Giornata tutta italoamericana alla Mostra di Pesaro

PESARO, 29 – Giornata quasi interamente italoamericana, quella di ieri, al festival di Pesaro. Due vecchi film sull'argomento, recuperati e restaurati dalla George Eastman House International Museum of Photography and Film e presentati con il sostegno della The Film Foundation, un convegno in due tempi (mattina e pomeriggio) con esperti, studiosi, critici; poi ancora due documentari di cortometraggio contemporanei, firmati da donne, come del resto il lungometraggio della serata al Teatro Sperimentale, seguiti tutti e tre dall'incontro con le autrici.

Ad aprire la giornata "The Movie Actor" di Bruno Vallety (1932), un corto di 15 minuti su Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, nato nel 1880 a Cava de' Tirreni, che emigrò negli States con la famiglia. Un abile trasformista che nei teatri americani interpretava irriverenti macchiette napoletane e cantava sfruttando la sua ottima voce, diventando un mito tra gli americani.

Nel film si mostrano anche le difficoltà degli attori italoamericani a farsi assumere dagli impresari newyorkesi. L'attore mette in scena una serie di macchiette: una donna, un gangster di Little Italy e un operaio appena sbarcato a New York. Un documento non solo di interesse cinearcheologico, ma anche sociologico, perché presenta uno spaccato della vita degli immigrati negli anni '30.

Tanti gli argomenti tirati fuori dall'interessante convegno per cercare di analizzare un fenomeno di massa come l'emigrazione-immigrazione italiana, e soprattutto le sue conseguenze sulla vita e sulla cultura americana, ma anche sulle ultime generazioni di italoamericani. Infatti, ormai si parla di quinta generazione e negli Stati Uniti c'è stato addirittura un dibattito su come si debba scrivere italoamericano. Secondo la correzione automatica del computer col trattino – in americano hyphen – e corrisponde a un approccio multiculturale, sviluppatosi negli anni '70, per cui le tracce delle origini stanno in questo "trattino" e trasformano, ovviamente, tutti gli americani in "ifenati": ispano-americani, afro-americani, italo-americani. Ma Anthony Tamburri – Preside del John D. Calandra Italian American Institute del Queens College, che ha collaborato alla riuscita della rassegna, e moderatore del convegno – preferisce lo slash, cioè la sbarra, in segno di alterità.

Dal pregiudizio allo stereotipo, dal razzismo alla famiglia, dalla mafia alla religione, dalle radici alla condizione della donna e quindi al macho italiano rappresentato (soprattutto al cinema) dal pugile, in contrapposizione alle campagne diffamatorie contro gli italiani famosi come Valentino e Caruso, accusati allora dai media di omosessualità.

Sono intervenuti (quasi) tutti gli autori dei saggi raccolti nel volume "Quei bravi ragazzi – Il cinema italoamericano contemporaneo" a cura di Giuliana Muscio (anche curatrice della sezione) e Giovanni Spagnoletti (direttore della Mostra) ed edito appositamente per l'occasione nei Saggi Marsilio: Jacqueline Reich, George De Stefano, Giorgio Bertellini, Anna Camaiti Hostert, Ilaria Serra, Fred L. Gardaphe e altri. Naturale che non si sia riusciti a dimostrare pienamente se il pregiudizio e gli stereotipi siano rimasti quelli di una volta, o piuttosto che si tratti di una ripresa del pregiudizio degli stessi italiani sugli italoamericani. Ma è passato più di un secolo e i cambiamenti politici, sociali e culturali hanno colpito un po' tutti. All'inizio del Novecento erano soprattutto i meridionali ad emigrare in America (del nord e del sud), che erano già allora vittime del pregiudizio dell'Italia (e dell'Europa) del nord.

Ma alla luce di tutti i discorsi emersi, anche dagli stessi italoamericani, le radici davano agli immigrati la forza di andare avanti, così come l'unità familiare – nel bene e nel male – rafforzava il nucleo che, a quei tempi, veniva considerato dalla legge e dal razzismo imperante uno scalino più su degli afroamericani.

Non bisogna dimenticare un'altra componente del (pesante) bagaglio dell'emigrato – come ha ricordato Vito Zagarrio – e trasmessa a figli, nipoti e pronipoti dai nonni. "E' la nostalgia per gli avi, per quei nonni ancora ferocemente attaccati alle loro radici" che tutti i discendenti degli emigrati si portano appresso, siano essi artisti, operai o intellettuali. Ed è probabilmente quella nostalgia che spinge a tenere vive, anzi a rafforzare, tradizioni ed usanze che forse nemmeno esistono più nel Paese d'origine e che, viste sullo schermo, a noi italiani sembrano macchiette, sopra le righe o stereotipi "tipicamente (italo) americani".

Impossibile citare tutti i discorsi, le sfumature e le influenze di un convegno che ha consentito lo scambio di idee e di conoscenze con i nipoti e pronipoti di quelli stessi emigrati.

Nel pomeriggio è stato proiettato l'altro documento storico, "Santa Lucia luntana" di Harold Godsoe (1931), sorta di sceneggiata napoletana ambientata a New York, intorno a una famiglia di immigrati – padre, figlio e due figlie – alle prese con la dura vita quotidiana e la nostalgia per il paese d'origine, vicino Napoli. Ma il figlio ha preso una brutta strada ed arriva a rubare i risparmi del padre, una figlia si è adattata completamente alla vita metropolitana ed è ribelle e trasgressiva, l'altra invece, lavoratrice irreprensibile, è la consolazione del padre. Però il fidanzato la convince a tornare in Italia. Curioso e, forse, inverosimile dal punto di vista storico, il film però ha il merito e il coraggio di rovesciare "il sogno americano". Quello vero è tornare "a casa", non solo per E.T., perché la maggior parte degli immigrati nelle due Americhe avevano in programma di tornare indietro, magari con un sacco di soldi fatti con sacrificio e sudore. Ma quasi nessuno ci riuscì perché travolti dagli eventi nazionali e internazionali, pubblici e privati. Il più delle volte è toccato a figli e nipoti far avverare questo sogno alla rovescia al posto dei loro avi.

Belli e commoventi, per diverse ragioni e differenti contenuti, i due brevi documentari "The Baggage" (Il bagaglio) di Suan Caperna Lloyd (2001) e "Closing Time" (tempo di chiusura) di Veronica Diaferia (2006), italiana ma da quattro anni a New York.

Il primo, intenso e disturbante, è tra il documentario storico e la vicenda personale. Protagonista del film è la famiglia della regista, ormai disgregata per via della demenza senile del padre e della fuga della sorella ribelle. Secondo l'autrice – che, cercando di elaborare il lutto della sorella, si è rivolta a una psicologa –, la causa è il trauma emotivo derivato dall'emigrazione, iniziato col genitore costretto più volte a ripartire, anche negli stessi Stati Uniti

Indagando nel passato, tra vecchie cartoline del paesello, le foto sbiadite dei nonni e del padre, ma anche i filmini di famiglia, l'autrice ci fa scoprire immagini e ricordi ora malinconici ora inquietante. E' "il bagaglio ambiguo" dell'emigrazione.

Meno tragico, ma non meno amaro, "Closing Time" che racconta la chiusura del negozio di libri, edizioni musicali e poi di oggetti vari "Ernesto Rossi & Co." Situato all'angolo tra Mulberry e Grand Street, nella mitica Little Italy di New York. Aperto nel 1902, il negozio era diventato ben presto il luogo in cui rifornirsi di fogli di musica per i suonatori di organetto, poi dei rulli, ma anche per gi artisti meridionali emigrati o chiamati, è uno dei luoghi fondativi della cultura italoamericana. Un pezzo di storia (anche) italiana che rischia da andare in pezzi, il suo proprietario (nipote di Ernesto) è stato sfrattato perché la zona, schiacciata dall'espandersi di Soho, quartiere di moda e della moda, è diventata una miniera (immobiliare) d'oro, dove oggi chiedono 25mila dollari di affitto.

Come sta accadendo in tutte le metropoli del mondo, un pezzo d'Italia nella Grande mela sta scomparendo. Little Italy è un luogo metafisico più che reale. E' il punto d'incontro tra la Napoli che Ernesto Rossi lasciò e l'Italia che suo figlio Louis ricreò nello storico negozio. Ora Little Italy non c'è (quasi) più, anche perché dall'altra parte c'è Chinatown, c'è stato l'imbastardimento nato con Nolita (North of Little Italy) e la fuga degli italiani.

Louis è riuscito a trovare un altro (piccolo) locale ma lontano da lì, ha detto la regista, ma il suo prezioso archivio di spartiti, canzoni, dischi (i primi fragilissimi 78 giri di pasta) rischiano di andare persi per sempre in un magazzino di Manhattan.

In serata è stato presentato "True Love" di Nancy Savoca (1989), poco visto da noi, ma molto particolare e interessante perché racconta dal punto di vista femminile e senza sangue, i violenti conflitti familiari e quotidiani. Brooklyn: la romantica ragazza italoamericana Donna sogna e vuole sposare Michael. Lui, apparentemente, la ricambia ma sembra più interessato alle serata con gli amici e, quando è tutto pronto per il matrimonio, riaffiorano le sorprese e i guai.

Per il concorso è stato presentato, in piazza, "Gubra – Anxiety" della regista malese Yasmin Ahmad. Un'inedita e divertente commedia corale dolce-amara che ruota intorno alla vivace Orked. Sposata con un uomo più grande, una mattina all'alba, Gubra è costretta a correre in ospedale col marito e l'intera famiglia perché il padre sta male e l'ambulanza non arriva. Ma nei corridoi incontra Alan, fratello del suo precedente fidanzato morto in un incidente. E, proprio mentre sta passeggiando con lui, scopre l'infedeltà del marito. Parallelamente, il muezzin Pak Bilal vive con la moglie e il figlio, e cerca di aiutare due prostitute, una delle quali ha un figlio e scopre di essere sieropositiva.

José de Arcangelo